La metafora dell’albero mozzo, simbolo di un’umanità che si è volontariamente depauperata della parte migliore di sé, e che attraversa tutto il romanzo, ritornando nei momenti più cruciali come una sorta di ossessivo leit motiv, si lega ad una trama dove l’elemento noir, nelle sue implicazioni talvolta inquietanti e cupe, accompagna il continuo indagare su di sé dei protagonisti, le loro angosciate domande sui perché della vita, il loro ossessivo chiedersi “Chi sono?”, “Perché sono così?”, “Cos’è la mia vita?”.
Perché è anche questa una delle tematiche predominanti dei romanzi di Silvana Cellucci, il reale motivo del giocare dell’autrice con l’identità dei suoi personaggi, dipanando e mostrando quasi una serie infinita di possibilità: oggi l’uomo ha smarrito se stesso, il suo essere più autentico, dilacerato e dilaniato com’è dalla ricerca del benessere materiale e del successo, travolto com’è dai falsi miti del potere e del denaro.
Ancora una volta, la polemica sferzante contro una società corrotta e marcia fino alle midolla si unisce ad una delicata e compassionevole indagine dei motivi più reconditi di sofferenza di uomini e donne, dando vita ad un romanzo che, se per i suoi continui ed avvincenti colpi di scena terrà desta sino all’ultimo l’attenzione del lettore, una volta chiuso il libro, lo indurrà amaramente a riflettere, e soprattutto a chiedersi quanti tra gli uomini e le donne di successo di oggi, così sicuri di sé, così ricchi, potenti e ossequiati da tutti, non siano in fondo altro che alberi mozzi ingegnosamente nascosti.
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