La poesia di Giovanni Di Guglielmo è un esempio di come la parola possa e sappia filtrare le emozioni e riproporle al dialogo della scrittura con pregnanze sue proprie e con immagini assai espressive, declinate sul filo dell’evidenza e dell’argutezza, ma sempre entro le latitudini di un ordine acconcio, argomentativo e di una vocazione ai toni dimessi, che si fanno simmetrici – fra l’altro – a relazioni, a rimandi e a gesti del dettato quotidiano, di quel fluire naturale e infinitesimo – anzi umile – in cui si sbroglia il vissuto di ciascuno e in cui eccelle la grazia del diminutivo.
Di Guglielmo, infatti, è poeta delle minime cose, dei frammenti in cui si libera l’intero, degli squarci che danno luce e chiarore e delle piccole (grandi) realtà dell’esistenza, ai quali egli somma la propria umanità e aggiunge l’animo e i ricordi, il proprio cuore, la delizia che fa crescere e la parola franca, spigliata, incline a comprendere e ad amare, a farsi tramite di stupore e di amicizia, di affetto e di quel bene che sempre resta e moltiplica.