Così, incivilmente, comincia quest’ultimo lavoro di Vittorio Orsenigo per mettere in guardia il lettore circa i necessari limiti posti dalla biografia del raccontatore senza tanti riguardi. Vita e romanzo, per fortuna, sono pa-renti alla lontana, una sorta di equivoca cuginanza di secondo grado.
“Nessuno osi pensare che, una volta incatenata l’autobiografia, l’abbia poi uccisa tre giorni più tardi a bastonate”. Ma sarebbe bene ag-giungere subito un “Ma …” di urgente Soccorso.
Alla Signora Anagrafe, il vecchissimo amoroso dà dell’infingarda spacciatrice di razionali empietà e si tratta di un’onesta resa dei conti, di un mugugno, di un rimbrotto che, ridendo e scherzando secondo il suo antico costume, non fa che mettere in ogni momento il dito nella duplice piaga della senilità di corpo e della bizzarria umorale di chi scrive da sempre, come è stato detto, saltando di palo in frasca, divagando nella divagazione non certo per calcolo ma per nascita ed educazione. I suoi educatori sono stati tanti e vari, fra cui spiccano la tata di Sant’Angelo lodigiano diciotten-ne pastorella di un gregge ovino e caprino, l’insegnante di francese che tornato nella sua Roma è diventato un assassino, sino alla bonne triestina che, di punto in bianco, gli parlava di Freud e di Zarathustra con deludenti risultati.
L’Io narrante, più che frugare nella memoria è da lei con violento gar-bo posseduto. Tocca al lettore decidere se stare dalla sua parte o picchiar-lo di santa ragione come, forse, merita.