Lamberto De Carolis ha saputo raggiungere, in poesia, livelli davvero considerevoli, affiancati da risultati altrettanto preziosi negli studi di quel ricco patrimonio di usanze con cui le piccole comunità del territorio abruzzese sono riuscite ad organizzare la propria lettura del mondo e le proprie dinamiche sociali, i propri riti della fede e quelli anche del sorriso, dell’amore, dell’urto e dei mille fatti quotidiani, chiariti via via nei giorni e nelle rotondità delle stagioni per i figli, per i nipoti e per la gente che sarebbe venuta poi ad accrescerli e magari a sostituirli.
De Carolis, infatti, oltre che poeta in vernacolo, è stato un appassionato ed arguto ricercatore dei costumi e delle modalità popolari, di quel folclore, cioè, e di quei dati antropologici che alimentarono il suo lavoro di giornalista: una attività, che egli esercitò lungo tutta la sua esistenza. E insieme al folclore, trovarono spazio, nel suo impegno e fra le sue passioni, anche la storia civile, i segmenti dell’azione, i valori chiamati a colmare il divario fra la civiltà e la barbarie, fra la bontà e il male, fra la luce e il buio, con un cifrario solitamente prezioso, vigile, intelligentemente denso di accrediti e di slanci umanitari.