Cinquanta milioni di morti in tre anni di
pandemia, dall’inizio del 1918 alla fine del
1920: la “spagnola”, con atroce perfidia,
s’accaniva sui giovani, risparmiando i vecchi. Falcidiava i reduci dal massacro della
Grande Guerra, raddoppiando i morti;
l’Italia, il Paese più colpito.
Con una vittoria sul morbo comincia
la storia della contadina Romualda, quarant’anni, nubile per un patto infranto dal
futuro sposo, “buona come il pane, sempre
pronta all’aiuto e poco alle chiacchiere”,
braccia e cuore del casale dei Giornini, nella piana di Cetona, tra Siena e Perugia. Se
n’è innamorato e la sposa Filippo Cesarini,
il medico amico dei poveri, e ce ne innamoriamo pagina dopo pagina noi lettori,
quando la vediamo prender come suo l’infante a cui dà il nome Tomasso, figlio illegittimo del conte Ferdinando Nesi, e di cui
la madre vera si vuole liberare, cacciata dal
villino di campagna della nobile famiglia.
Più dell’amore incondizionato per il figlio trovato, ci incantano l’educazione di
cultura contadina con cui viene cresciuto,
gli esempi di saggezza recuperati dalle pieghe di una memoria d’oggi impigrita a salvare del passato nomi e date, non i valori.
Ma la vita scorre, e anche la storia di
Romualda, Filippo e Tomasso si complica,
ci tiene con il fiato sospeso, ci costringe al
coinvolgimento emotivo: la vecchia contessa Nesi rivuole il nipote, i fascisti sono un
brutale pericolo per gli antagonisti, come il
medico Filippo. A combattere c’è Romualda, con la forza di chi “è rassegnata alla
vita”, “una pietra ruvida, su cui scivola il
diluvio”.
Con un linguaggio scabro, essenziale e
di raro rigore, Rosa Manganello scrive un
romanzo perfetto sulle nostre radici profonde. Andrea Mantelli