Non un filo di vento. Bagliori di scariche elettriche nel cielo in lontananza. È come guardare un
temporale attraverso la superficie del mare, dal
profondo dell’abisso. Non un suono distinto, solo
un fischio che buca il cervello. Non sembra reale.
Eppure, sta succedendo qualcosa.
E come Kalì riemerge dal suo allucinato delirio di
fumo, rock e visioni, così un cadavere smembrato
sbuca fuori dal cortile del bar di Ulrike, quartier
generale della banda, trascinandosi dietro uno
sbirro romano ficcanaso, amici vecchi e nuovi da
proteggere o sacrificare e un ispettore faccia buona che riesce sempre a fare le maledette domande
giuste; qui c’è qualcuno che sa, qualcuno che non
ha dimenticato, qualcuno che non vuole perdonare.
Il passato presenta il conto, morde i calcagni di
Birro, Jesus, Caele e Kalì, li stana fino in Spagna –
nell’estasi mantica di una cartomante di strada –,
non li molla nemmeno quando si troveranno dietro le sbarre – nella benedizione di un prete che
preferisce contare i proiettili piuttosto che i grani del rosario – e, infine, con il nome di un uomo
morto, li mette al muro.
Non c’è più tempo. Bisogna prendere una decisione, prima che si scateni la tempesta. La pressione
allo sterno è ormai insopportabile. Il sibilo si intensifica… “Scegli, Kalì, scegli il male minore”.
È l’ultimo atto. Il coro esce di scena. Un sipario di
polvere da sparo cala sugli attori.