L’ineluttanza delle parole è, nella sovversione del dire, provocazione sottesa a forzare sfidando da una parte la riluttanza della parola (nel libero dispiegarsi del proprio potenziale espressivo a fronte delle profondità incommensurabili del silenzio e delle sue vertiginose altitudini) e, dall’altra, l’ineluttabilità dell’esserci (in quanto parola sempre e comunque, in pensiero e in azione, nelle vocalità e nella scrittura), proprio a partire dal silenzio e nell’intento conservativo di ogni sua, seppur minima, traccia.
Ed è voce che sosta, silenziosa e all’erta, sulla soglia della parola interrogando la propria intima dimora e, al tempo stesso, zattera di scrittura offerta al naufragio di ciò che nella voce appare, forse, inesprimibile ancora.
È sosta di confine. Limite d’inoltre. Danza inestricabile di contatto e distanza tra confini e orizzonte, barbara e cittadina. L’avvicendarsi pulsante dei poli di una stessa, disidentica, identità.
È messa alla prova di una scrittura che refuti o validi la capacità di stabilire connessioni e disconnessioni gravitazionali sulla base del credito che si è disponibili a concedere all’altro e al mondo, nella reciprocità del processo negoziale delle conoscenze che, ancora prima, variamente si compongono e armonizzano in cura e discernimento, impegno e riflessione.
È l’intento del sé di sospendere ogni dialogo interno per rinnovare il segno tracciato dei propri confini ridisegnandone l’orizzonte. Intento nomade (impeccabile, persino innocente), di un’apertura costante a r/in/tracciare, fino al margine della pagina e lungo i crinali turbinosi della lettura, memorie e visioni al differenziato riposizionarsi di ogni vedere e d’ogni sentire.
È il silenzio eretico dell’istante.