Un gruppo di giovani amici, una vacanza, un castello per di più scozzese: ci sono già gli ingredienti-base per una classica avventura. Se a ciò si aggiunge che il castello è oppresso da una maledizione plurisecolare e permette di comunicare con altri mondi, avremo una dilatazione dell’avventura fino ai confini del “meraviglioso”.
Questo straordinario reame, così tanto visitato negli Anni Venti e Trenta (ricordate riviste come Weird Tales e Wonder Stories?), oggi è a torto trascurato da autori e lettori. La nostra epoca è più disin-cantata rispetto a quella di mezzo secolo fa: pensiamo di sapere tutto del mondo che ci circonda, salvo pentircene subito dopo. La conoscenza — come afferma Leopardi — non dà la felicità.
Oggi — comunque — chi scriverebbe ancora di remote civiltà nascoste tra le cime delle Ande o quelle dell’Himalaya? Si preferisce dare un taglio netto: o è fantasy integrale (cioè un vero e proprio Mondo Secondario alla Tolkien, alla Eddings, alla Tad Williams...) oppure è sì avventura, ma in un mondo estremamente reale (magari pure con risultati interessanti, come Inferno nella palude di Robert McCammon o Colditz di Reid).
Roberto Patuzzi ha perciò scritto qualcosa di cui si era perduta la memoria. Il suo voler aggiustare ogni problema, poi, con un adeguamento della trama, dà al suo libro un sapore di fiaba, dove — a differenza della realtà — i buoni quasi sempre superano indenni le varie disavventure.
Come fonte d’ispirazione Patuzzi dev’essere rimasto colpito in particolare da Krull, un discreto film dell’83. Non a caso i cavalli che verso il finale portano alcuni dei protagonisti alle pendici dei Denti dell’Hydra ricordano la pellicola sunnominata di Peter Yates, laddove parla di “cavalli di fuoco”.
Altre opere, beninteso, descrivono i cavalli come esseri speciali: parlo delle Cronache di Thomas Covenant l’Incredulo (Donaldson), del Signore degli Anelli (Tolkien), del ciclo di Elundium (Jefferies) e della saga di Valdemar (Lackey), ma gli autori là avevano avuto più spazio per meglio delineare le virtù di questi animali.
Nel presente libro, invece, è notevole lo sforzo di Patuzzi di mescolare generi diversissimi tra di loro, come l’horror (i fantasmi degli sfortunati visitatori del castello) e la fantascienza (il transfer iperdimensionale di Boz), la fantasy (la “cerca” nel mondo dei Trell) e l’esoterismo (l’alchimia di Nathaniel Merlino).
La fantasia dell’Autore è evidente; resta da valutare l’impatto della trama in un’opera che punta, più che sulla psicologia dei personaggi, su una serie ininterrotta di colpi di scena, con vicende una più inverosimile dell’altra.
Se alla fine anche voi lettori capirete la voluta esagerazione che avvolge la vicenda dall’inizio alla fine, la sfida di Roberto Patuzzi sarà stata vinta.
Anche voi, allora, scoppierete — come accade ai protagonisti del Castello Maledetto — “in una risata liberatoria e in grida di vittoria” e deporrete il presente volume. Buona lettura!