Giovanni Monti

Novilunio

Presentazione di Benito Sablone

Tabula fati, Chieti 1999

 

Presentazione di Benito Sablone

     Giovanni Monti ha dietro le spalle una lunga storia di narratore e di poeta che coincide con le esperienze cruciali degli ultimi decenni di questo secolo. Le vicissitudini che lo hanno coinvolto intellettualmente sembrano essere, tuttavia, più larghe e più avanzate di quelle sofferte dai suoi contemporanei nell’avventura del secondo dopoguerra perché toccano temi non solamente filosofici e — talvolta — teologici ma anche estetici, con incursioni nel mondo del visionario. La sua scrittura, chiara e precisa, densa di rimandi e di allusioni, rivela uno spessore culturale di prima mano che estende le sue radici in secoli lontani, fino a toccare autori non sempre bene accolti dal pensiero conformista e nei quali Monti si riconosce.
     Questo singolare romanzo, Novilunio, per molti aspetti autobiografico dell’autore e di una generazione, si presenta come un testamento simbolico che, per essere ben inteso, va letto almeno su due piani: uno sociologico e l’altro psicologico. Il secondo piano, più del primo, si apre a ventaglio e rivela una drammaticità esistenziale che spazia da Rilke e Camus per tuffarsi, infine, nelle vive pagine di Rebora e Onofri fino a Sinisgalli e Luzi.
     Tali indizi sono sufficienti per capire molte cose, specie quelle che compaiono sulla soglia della realtà e poi entrano nel sogno, come accade per la donna che Francesco Guerra identifica con la sanguigna e passionale Yerma del dramma di Garcia Lorca. Ma questi sconfinamenti non hanno soltanto il compito di spingere avanti la narrazione, bensì contribuiscono a evidenziare la volontà dell’autore a superare i limiti consueti della scrittura per accedere alla identificazione con un mondo utopico nel quale ha eletto la propria dimora.
     Ma sappiamo che l’utopia è un non-luogo e può, quindi, benissimo rappresentare l’ultima carta nella partita contro la morte, per cui il cerchio può chiudersi in un unico modo.
     Francesco Guerra, che nel romanzo sembra trascrivere la propria esistenza indirizzandosi alla moglie Lavinia — ombra lontana e indistinta, metafora d’una passata felicità e di un possibile ulteriore approdo — lasciata a Palermo per dedicarsi all’esperienza traumatizzante del volontariato in un paese dove il confine tra realtà e immaginazione, giusto e ingiusto non esiste, nel tentativo di reinserirsi nel flusso vitale della normalità incontra persone e situazioni che ne accentuano il pessimismo e la sfiducia. Tra tutti sono notevoli Don Mario, Gaspare e Isidora, le cui storie vengono narrate — meglio, testimoniate — da Padre Lagrasta, un sacerdote aperto alle nuove prospettive della speculazione filosofica, in bilico tra il dubbio e la ragione. Questi diventa il simulacro della condizione di immobilità in cui vive l’isola siciliana e, fatalmente, gran parte del mondo.
     All’interno delle metafore che Giovanni Monti diffonde nei resoconti delle conversazioni tra Francesco Guerra e il sacerdote, si possono cogliere infinite sfaccettature della condizione umana che si riflettono tutte nella proposta di Padre Lagrasta: instaurare un dialogo contro la disperazione, trovare punti di incontro tra San Tommaso e Kant. Ma ormai la valanga travolge le residue certezze, ogni cosa si sgretola e Francesco Guerra sceglie Majakovskij: «Non è un modo, non lo consiglio agli altri. Ma per me non c’è altra soluzione.» A questo punto darsi la morte è inevitabile.
     Eppure Novilunio non è la storia di un suicidio, bensì un atto di accusa per tentare di rompere un assedio storico in nome della libertà, quella che Camus vedeva non come una ricompensa o una decorazione da festeggiare con lo spumante, né come un gratuito regalo, ma come un lavoro ingrato, una corsa di resistenza estenuante e solitaria.

Benito Sablone