Giovanni Monti

Nolendo

Racconti in grigio e in nero

Presentazione di Andrea Marcigliano

Tabula fati, Chieti, Giugno 2003

 

Presentazione di Maria Pia Nervegna

     Vi è un filo sottile che unisce tutti questi racconti di Giovanni Monti, facendo sì che, pur nel mutare di personaggi, situazioni, ambienti, ci si ritrovi, comunque, di fronte ad un narrare che ha il respiro dell’opera unitaria. Ad un discorso che non conosce soluzione di continuità, che, al di là delle apparenze, non viene mai interrotto; un discorso che si snoda, invece, secondo una logica sotterranea, a tutta prima di non immediata comprensione per il lettore, ma che, a poco a poco, si rivela, anzi si svela.
     Perché di uno svelamento si tratta; essendo sempre tutti i racconti, o meglio tutti i tasselli di questo complesso mosaico, in qualche modo velati, di modo che il loro vero significato, la direzione verso la quale muovono, conducendo con loro il lettore, resti nascosta il più a lungo possibile. Ed è questo che ti prende, che ti costringe quasi a leggere, che ti lascia, anche, con il fiato sospeso... L’arte di creare suspense è arte difficile, che richiede sicura padronanza tanto della tessitura della trama, quanto dello stile narrativo.
     Giovanni Monti dimostra qui una sicurezza stilistica non comune, frutto di una lunga pratica e di una ancor più lunga e complessa ricerca. Il suo stile procede attraverso periodi brevi, fulminanti, spezzati. È, in fondo, lo stile asciutto e scabro già rivelato nei romanzi precedenti — in Novilunio, soprattutto — ma che ha subito, tuttavia, un’ulteriore scarnificazione, una vera e propria, voluta, disarticolazione della frase.
     Una disarticolazione che rende, in modo originalissimo, il respiro interiore delle vicende narrate e, soprattutto, l’affastellarsi di pensieri, immagini, stati d’animo dei personaggi, protagonisti o comparse che siano.
     Così scompare la linea di demarcazione tra descrizione e dialoghi, come quella tra discorso diretto ed indiretto, e tutto si risolve in una sorta di personalissima interpretazione di quel flusso della coscienza che ci riporta con la memoria alla grande sperimentazione dei linguaggi narrativi propri di certa avanguardia anglo-americana del primo ’900. E tuttavia qui il flusso della coscienza si manifesta attraverso frasi smozzicate, a tratti balbettate, funzionali a rendere un universo umano in disgregazione, pervaso da una sorta di oscura angoscia che, man mano che si procede nella lettura, ingigantisce sino a travolgere il lettore, trascinandolo in un abisso d’orrore.
     Perché il filo conduttore, di cui parlavamo prima, consiste proprio in questa capacità di trasportarci continuamente dal grigio al nero, come recita il titolo. Ovvero dal grigiore di una quotidianità nevrotica, di un esistere convulso, di un agitarsi e muoversi ed agire senza senso apparente sino all’orrore che si cela dietro a tutto questo.
     I temi ed i personaggi che Giovanni Monti crea — o forse sarebbe meglio dire inventa, ritrovandoli in un’osservazione spietata della realtà — sono temi e personaggi solo in apparenza comuni, banali. Figure dell’ordinaria nevrosi di un mondo urbano in decomposizione, piccoli rapinatori, una donna avvocato sospesa tra lavoro ed amori contraddittori, un emigrante che ritorna dopo un trascorso oscuro in America, un gigolò... figure la cui vicenda inizia nella luce grigia della quotidianità, e si conclude poi in quella, rarefatta, di un vero e proprio noire. Ché il senso di tutte queste storie è proprio in questo continuo precipitare dell’ordinario verso l’abisso della follia, dell’angoscia... verso il delitto. Una follia ed un delitto che, però, sono già insiti nella realtà di questo nostro mondo pervaso da un’ansia senza nome, incapace di trovare punti fermi. Incapace anche e soprattutto di un universo di pensieri e di emozioni articolate, compiute. E così Monti ci racconta non l’intreccio di fatti propri del noire classico, bensì quello degli stati d’animo, dei pensieri appena affioranti, dei pensieri e moventi celati dietro a un, volutamente caotico, universo di impressioni e sentimenti. L’orrore, insomma, dietro l’apparenza della banalità quotidiana.
     Lo sfondo di questi racconti è la Sicilia. Ma non la Sicilia folclorica, rustica, paesaggistica cui siamo da sempre avvezzi. È, piuttosto, un’insolita Sicilia metropolitana, ove i personaggi appaiono esausti, divorati da ritmi febbrili, perennemente incalzati dal fuggire frenetico delle ore e dei minuti. È Sicilia, ma potrebbe essere New York, Milano, Londra... una delle tante città di vetro, paradigmi di un modernità senza storia e senza speranza. E tuttavia in Monti vi è pur sempre qualcosa di quella sicilitudine di cui parlava Leonardo Sciascia. La si può ritrovare non in affettazioni del linguaggio — che, anzi, è, nella sua particolarissima scansione, classico — e neppure in una qualsivoglia concessione all’atmosfera, al pittoresco.
     Piuttosto essa riposa in un senso fatale dell’esistenza umana che affiora in ogni pagina di questo libro. Quel senso del tragico che, da sempre, è una costante della narrativa siciliana, retaggio, in fondo, delle radici greche di quella terra. Il tragico che si fonda sulla follia; su quella follia che è costantemente in agguato dietro ad ogni cosa, dietro alle situazioni più comuni, agli eventi, in apparenza, più banali. È il tragico della lezione pirandelliana, la corda pazza, il vuoto che si scorge attraverso lo squarcio in un cielo di cartapesta. Ed è lo stesso horror vacui che compenetra tutte le dense pagine di Giovanni Monti. Quell’orrore del vuoto, del non senso dell’esistenza ordinaria che prelude sempre alle tragedie, solo in apparenza minime, di questi racconti. Dicevamo in apparenza perché il lettore non deve venire tratto in inganno dall’ambientazione dimessa, dal tono a tratti sfocato della narrazione.
     Questi racconti non appartengono alla maniera, oggi tanto in voga, del cosiddetto minimalismo. Piuttosto sono dei racconti filosofici nel senso, ancora una volta, pirandelliano del termine. Laddove per filosofico s’intenda, dunque, l’interrogarsi, o meglio l’arrovellarsi senza posa sul senso/non senso dell’esistenza umana. Il chiedersi che cosa incomba su di noi dietro la fragile barriera della normalità e della quotidianità in cui ci siamo trincerati.
     Racconti, dunque, che inducono a pensare. A riflettere. Ma non per questo meno avvincenti nel loro sviluppo. Giovanni Monti conosce, bene, l’arte non facile del racconto breve, e riesce ad infondervi la giusta dose di suspense, costringendoci a non lasciare il libro, ad inseguire le vicende dei suoi personaggi pagina dopo pagina, racconto dopo racconto. Affascinati e, al contempo, afferrati dalla sottile angoscia che va, via via, sempre più ingigantendo ed inquietando le nostre menti.

Andrea Marcigliano