Giovanni Monti

La ballata dell'ultimo dei giusti

Presentazione di Maria Pia Nervegna

Tabula fati, Chieti, Luglio 2004

 

Presentazione di Maria Pia Nervegna

     Il protagonista de La ballata dell’ultimo dei giusti appartiene alla foltissima schiera degli inetti del Novecento, pur rappresentandone uno sviluppo originale e, in definitiva, una simbolica riabilitazione. Leo Currenti è inetto come inetti sono i personaggi sveviani, quelli di Pirandello e di Tozzi, di Musil e di Kafka. Le ragioni di questo proliferare, anche nell’ultima narrativa, di una simile tipologia risiedono nel perdurare o riacutizzarsi all’interno dell’immaginario contemporaneo di determinate condizioni storiche, quali l’aggressività economica, la pervasività tecnologica e — a livello individuale — un’incalzante solitudine esistenziale.
     L’opera ha una struttura semplice: è suddivisa in due parti, ma è la prima ad occupare quasi interamente lo spazio narrativo, lasciando alla seconda una coda retrospettiva e il congedo. Il racconto si apre con l’espediente di un narratore-attore “in cerca di autore”: si tratta di Memi, l’inseparabile chitarrista con cui Leo condivide la sua sgangherata esistenza. Memi ha bisogno di uno scrittore che selezioni e dia ordine al magma dei ricordi, che sia capace di registrare quanto più direttamente e fedelmente possibile gli eventi che è in procinto di raccontare, confinando la voce autoriale, le aggiunte, a corsivi strutturati liricamente.
     Così la narrazione si snoda tutta alterna tra prima e terza persona, in un continuo distanziamento-avvicinamento alla realtà; il punto di vista onnisciente e giudicante del narratore che ricorda e quello ben più limitato del personaggio che agisce si mescolano, favorendo una singolare alternanza di passato e presente e generando l’atmosfera di inattendibilità e sospensione in cui è calata la vicenda.
     Movenze epiche cogliamo nella fiducia accordata dall’aedo Memi alla propria testimonianza orale, contrapposta alla scrittura generatrice di finzione, nel compiacimento a narrare storie, vere o inventate che siano, nella struttura del testo che rifiuta l’etichetta borghese e cristallizzata di romanzo per acquisire quella di “opera aperta”, che si ponga, come il suo protagonista, in una condizione di fluidità e di disponibilità al mutamento, senza un preciso inizio né un definitivo epilogo.
     L’omologo formale di tali caratteristiche compositive sono una sintassi leggera, semplificata da un’ars punctandi tendente a riprodurre la componente musicale e vocale del parlato; un lessico in cui si alternano regionalismi, cultismi e forestierismi, nonché vari strumenti di animazione, come la dislocazione a sinistra del complemento e la sua ripresa pronominale, le frequenti ripetizioni, gli incisi, il ricorso all’aggressione verbale. Il tutto confluisce in un chiacchiericcio la cui valenza ritmica prevale su quella logica, espressione della con-fusione esistenziale dei personaggi.
     In una Palermo avara, ironicamente “picaresca”, dai cui luoghi e scorci di umanità è lontana ogni tentazione bozzettistica e pietosa, si svolge la storia, tragica e comica assieme, di due giovani uomini alle prese con sempre nuove miserie della vita, come i conflitti familiari, la disoccupazione, la violenza urbana, l’emarginazione sociale.
     L’attenzione si concentra in particolare sul destino individuale di Leo. Di derivazione piccolo borghese, con velleità letterarie senza aver mai pubblicato, questi appare dissociato tra passato e presente, privo di proiezioni sul futuro, sempre in bilico tra la spendibilità sociale del ruolo d’intellettuale e la sua insignificanza nel mondo d’oggi che bada al prodotto e che quindi lo riduce a dilettante.
     Incapace di impiegarsi in un’occupazione continua e redditizia, preferisce “farsi mantenere” dall’amico musicista e commerciante. Niente e nessuno attorno a lui sembrano corrispondere ai suoi interessi; sbarca il lunario giocando al biliardo e scommettendo sui cavalli. Proprio durante il suo vagabondare per i locali della città, Leo incontra Sara. Con le sue “normalità” e razionalità, la ragazza diventa punto di forza del sistema di vita del giovane, fino a quando un evento apparentemente fausto, un lascito testamentario, ripropone la logica del più gretto conformismo borghese, e pone quindi il protagonista di fronte a una scelta inaccettabile.
     Benché consapevole della propria inettitudine e della mancanza di energia di fronte alle situazioni concrete della vita, Leo difende la sua indole con ribellistico orgoglio e caparbia determinazione. Ricomincia così – agli occhi dei compagni — un ciclo esistenziale inconcludente, bizzarro e instabile, nella quasi assoluta incapacità di assumersi la responsabilità di qualsiasi proponimento, limitandosi ad adeguarsi alle più diverse e casuali situazioni.
     Il personaggio sembrerebbe condannato ad attraversare l’epoca brillante dei self-made men rimanendo prigioniero del disagio e del fallimento, se non fosse che la sua pretesa inettitudine non è un prodotto di natura, ma storico. Quello che per gli altri è abulia, per Leo costituisce una difesa imprescindibile, un alibi necessario che deriva da scelte personali e che si manifesta di fronte ai più logori pregiudizi borghesi. Pertanto il giovane non è il portavoce di un’etica dettata esclusivamente dalla fame e dai bisogni materiali, come la società vorrebbe far credere, ma è un essere straordinariamente vitale che ha scatti di improvvisa dignità e generosità, che non esita a trasformarsi ne l’ultimo dei giusti, eroicamente al servizio dei deboli e degli indifesi che soccombono sotto i colpi del più forte. Rifiutando di fissarsi in un ruolo (una residenza, un lavoro, un premio letterario), Leo rigetta l’ irrazionalità del mondo in cui è costretto a vivere, cogliendo le contraddizioni tragicomiche, la logica catastrofica connaturata alla stabilità delle forme, voltando le spalle a una civiltà condannata alla perdita di autenticità e alla disgregazione esistenziale.
     Istintivamente guidato da un’eticità naturale, Currenti sceglie di farsi protagonista di un eroismo quotidiano, di una santità nascosta dietro un’apparente rozzezza e volgarità di modi, un apostolo della passione per la vita.
     Certo, anche Leo conosce il bisogno di avventura e la tentazione di una trasgressione permanente, ma non vi aderisce; cede solo al desiderio di rifugiarsi, per qualche giorno, in un simbolico alveo materno, la Fossa, luogo emblematico della libertà primigenia e dell’autenticità primordiale, sacro nel suo non essere nel tempo. Qui, retrocesso (o elevato?) a stato fetale, egli esegue una danza ipnotica e trasognata, nota alle persone a lui più care, che è espressione, allo stesso tempo, della solitudine, ma anche di adesione gioiosa alla vita: essa salva dalla falsità dei rapporti sociali e consente un approccio autentico con l’altro da sé.
     Ad un certo punto, proprio quando le cose sembrano mettersi per il meglio, Leo è chiamato a pagare il prezzo del suo coraggio. Al lettore il compito di decidere se al di là della morte si intraveda la vita o se dietro la speranza si celi l’angoscia. A noi piace pensare che il personaggio che abbiamo imparato ad amare pagina dopo pagina viva in America, ma che abbia perso la sua volontà corrosiva, la sua salute di déraciné; che sia, come direbbe Svevo, “completamente guarito”. Sì, Leo è risanato. Integrato. Fagocitato. La dimensione sociale, ancora una volta, ha vinto.

Maria Pia Nervegna