Il romanzo Can I have the first slide, please? di Stefano Favia prende le mosse dal viaggio in aeroplano, con destinazione Milano, che un giovane medico pugliese compie perché relatore ad un congresso scientifico internazionale.
I tre giorni durante i quali il protagonista partecipa al congresso daranno la stura a tutta una serie di pensieri, considerazioni, valutazioni sul mondo della medicina, sugli interessi che vi gravitano attorno, sul carrierismo sfrenato di alcuni suoi esponenti, sull’opportunità di certe cure e terapie, sullo stato di ospedali e case di cura e sulla Sanità considerata in modo globale.
Lo humor caustico e sardonico dello scrittore si appunta dapprima sull’analisi caratteriale di certi primari e luminari della medicina, sulla loro boria, sulla loro saccente sicumera, sulla loro arrogante superbia, fino a diventare profonda e circospetta riflessione psicologica, sociologica ed etica su tutto ciò che è umano, facendo risaltare le profonde contraddizioni fra apparire ed essere, fra coraggio e viltà, fra onestà e nequizia.
Così il giovane medico pugliese, io narrante della vicenda, fa un resoconto della sua vita, delle sue aspirazioni, dei suoi sogni irrealizzati, delle sue simpatie, delle sue antipatie, delle sue angosce e delle sue sconfitte, in un feadback memoriale che avvince e coinvolge inesorabilmente il lettore.
Favia infatti utilizza una scrittura fluida, molto vicina alla lingua parlata, estremamente sintetica, essenziale ed efficace.
Un modulo narrativo netto e chiaro, ma nel contempo pieno di verve e brio, modulo narrativo che ci ricorda quello colorito e tutto particolare del grande Michail Bulgakov, garante e difensore anch’egli dell’individualità umana.
Così come lo scrittore russo anche l’autore rivendica la libertà dell’uomo, quella libertà vera che rifiuta di appiattirlo e ridurlo a pura molecola con valenza economico-sociale.
La difesa dell’uomo è anche il punto di avvio per una realistica e sofferta descrizione delle condizioni igienico-sanitarie in cui versano i nostri ospedali e le lungaggini burocratiche e amministrative che li rendono invisi e odiosi alla gente comune.
La messa a fuoco di tali vasti e gravi problemi non scade mai però nel tono predicatorio altisonante o nell’enfasi retorica ma mantiene sempre un incedere lieve, quasi scanzonato e sbarazzino dove sono la pungente ironia, la parola schietta e corrosiva a dettar legge.
Tratto più esilarante, simpatico ed esaltante del romanzo rimane l’osservazione minuziosa, quasi fatta dietro una lente d’ingrandimento o dietro un potente microscopio, di tic e manie dei seguaci di Asclepio, che risultano avere la consistenza di insetti agitantesi in una boccia di vetro.
Stefano Favia ha colpito nel segno perché è riuscito a realizzare l’aspirazione di quell’andante latino che diceva: “ridendo castigat mores”, e proprio ridendo egli riesce a sferzare l’acquiescente mediocrità dei nostri tempi, la sua aspirazione allo spirito di gregge, la sua dedizione al dio denaro, grande fata Morgana che trasforma ogni desiderio in realtà ma che chiede sempre in cambio pezzi di coscienza, di amor proprio e di dignità.
Ma la colpa di tale degradazione dell’umano è da attribuirsi alla estrema massificazione della nostra società, come sottolinea il protagonista della storia: «La colpa non è nostra. È di chi costringe a far vedere la TV a mio padre perché è ancora convinto che bere molto vino rosso fa aumentare i globuli rossi, e bere molto vino bianco fa aumentare i globuli bianchi. La colpa è di chi costringe a far vedere la TV al cassaintegrato, che non sa che fare dalla mattina alla sera. Al bambino che abbandona la scuola a sette anni. Al malato che la vede perché non ci va nemmeno un parente a trovarlo, e preferisce morire con la TV accesa...»