Tra i meriti del Premio Tolkien, il concorso dedicato a racconti inediti fantastici organizzati dall’editore Solfanelli fra il 1980 e il 1993, c’è senza dubbio quello di aver rivelato o messo in evidenza alcuni autori italiani che coltivavano si può dire in segreto la passione per il racconto fantasy, intendendo questo termine nelle sue più varie accezioni. Autori giovani e non poi tanto giovani, esordienti assoluti ma anche già noti per essersi cimentati in altri generi di narrativa, pubblicati nelle varie antologie Le Ali della Fantasia, o segnalati alle premiazioni, che però si sono trovati di fronte l’ottusità della situazione editoriale di questo Paese in cui o si accettano certe regole commerciali o si è condannati all’oblìo. Spesso si è trattato di originali e inquietanti meteore che, dopo quella esperienza, sono ritornate nell’ombra con grande rammarico per chi credeva (e tuttora crede) nella validità della narrativa fantastica specialmente italiana; in altre occasioni, non frequenti, ma nemmeno troppo rare, l’occasione del concorso e del premio ha consentito per alcuni il crearsi di una amicizia e di una comunità d’intenti; infine, vi è stato chi ha proseguito con le sue gambe e con i suoi mezzi.
Uno di questi è il genovese Marco Ercolani che è entrato tra i dieci finalisti del Premio Tolkien ben tre volte, nel 1986, nel 1987 e nel 1989, con storie eteree, inquietanti, stilisticamente legate ad un certo tipo di narrativa anglosassone del Sette-ottocento, riverberanti i toni e il modo di raccontare di un Coleridge, di un Beckford, di un Poe, di un Morris, di un Hodgson. Toni e modo più che stile, indubbiamente moderno, ma il sottile procedere per enigmi, per allusioni, o anche al contrario le visioni barocche, i nomi astrusi, la predilezione soprattutto per le città senza nome, i protagonisti anonimi e i viaggi di mare allucinati, rimandavano inevitabilmente a quel genere di narrazione tipicamente anglosassone.
È, in fondo, quanto si ritrova in questi tre racconti il cui filo conduttore consiste nell’essere degli apocrifi. Ercolani (da buon psicoterapeuta — che è poi la sua professione — si dovrebbe dire) si è ben immedesimato in Coleridge (1772-1834), di cui ha immaginato il brano del romanzo giovanile Sindarusa; in Gogol (1809-1852), per il quale ha pensato ad un immaginario scambio di lettere polemiche alla vigilia della morte; e in Alfred Kubin (1877-1959), l’autore de L’altra parte, che avrebbe scritto alcuni frammenti di un romanzo inedito, Chàos.
Marco Ercolani non tenta qui l’operazione che compirono Paolo Vita Finzi con i narratori e i filosofi, e Luciano Folgore con i poeti. La sua non è una imitazione a scopo satirico; anzi, diciamo pure che il suo intento non è tanto quello di fare il verso allo stile dei tre artisti, quanto quello di calarsi nelle loro intenzioni, di carpirne lo stato d’animo, la Weltanschauung, la poetica. E così il simbolismo del viaggio interrotto per Coleridge, la trasformazione religiosa e politica nel contrasto con un suo critico ex ammiratore per Gogol; il brancolare nel buio della vita di Kubin. L’inglese, il russo, l’austriaco con le loro ansie, inquietudini, turbamenti, la ricerca infinita di qualcosa d’inafferrabile sono, in fondo, i prototipi dell’uomo moderno, ma con un di più: ne erano perfettamente consapevoli — e proprio per questo hanno scritto quel che hanno scritto — mentre l’uomo moderno, o forse più esattamente post-moderno, consapevole non è, anzi presume orgogliosamente di aver superato tutto ciò mentre è invece preda del nichilismo più totale.
Dove Ercolani riesce meglio nel suo intento è, credo, proprio nell’apocrifo coleridgiano, Sindarusa, che poi dà il titolo a tutta la breve raccolta. Qui la mescolanza di storie di viaggi marini tipici del Settecento e di esotismi che si rifanno alle Mille e una notte (in particolare ai Viaggi di Sindbad) è pressoché perfetta: lo stile è vagamente allucinatorio ed il finale rimanda una sensazione esoterico-mistica. Il mistero regna sovrano.
Un mistero che riverbera sin dalle pagine di un ancor più strano “prologo” che interpreto a mo’ di autopresentazione dell’autore: Alexander Cozens, “pittore e incisore inglese di origine russa”, che sembra ritornare dall’Aldilà ogni notte per apportare modifiche e ritocchi senza fine al suo quadro Il bosco di Nottingham, altri non è che una metafora di Marco Ercolani stesso, psicoterapeuta genovese, che torna su queste pagine per arricchire, completare, aggiungere particolari ignoti all’opera (e alla vita) di Coleridge, Gogol, Kubin.