Marco Ercolani

Sindarusa

Presentazione di Gianfranco de Turris

Tabula fati, Chieti 1998

 

Presentazione di Gianfranco de Turris

     Tra i meriti del Premio Tolkien, il concorso dedicato a racconti inediti fantastici organizzati dall’editore Solfanelli fra il 1980 e il 1993, c’è senza dubbio quello di aver rivelato o messo in evidenza alcuni autori italiani che coltivavano si può dire in segreto la passione per il racconto fantasy, intendendo questo termine nelle sue più varie accezioni. Autori giovani e non poi tanto giovani, esordienti assoluti ma anche già noti per essersi cimentati in altri generi di narrativa, pubblicati nelle varie antologie Le Ali della Fantasia, o segnalati alle premiazioni, che però si sono trovati di fronte l’ottusità della situazione editoriale di questo Paese in cui o si accettano certe regole commerciali o si è condannati all’oblìo. Spesso si è trattato di originali e inquietanti meteore che, dopo quella esperienza, sono ritornate nell’ombra con grande rammarico per chi credeva (e tuttora crede) nella validità della narrativa fantastica specialmente italiana; in altre occasioni, non frequenti, ma nemmeno troppo rare, l’occasione del concorso e del premio ha consentito per alcuni il crearsi di una amicizia e di una comunità d’intenti; infine, vi è stato chi ha proseguito con le sue gambe e con i suoi mezzi.
     Uno di questi è il genovese Marco Ercolani che è entrato tra i dieci finalisti del Premio Tolkien ben tre volte, nel 1986, nel 1987 e nel 1989, con storie eteree, inquietanti, stilisticamente legate ad un certo tipo di narrativa anglosassone del Sette-ottocento, riverberanti i toni e il modo di raccontare di un Coleridge, di un Beckford, di un Poe, di un Morris, di un Hodgson. Toni e modo più che stile, indubbiamente moderno, ma il sottile procedere per enigmi, per allusioni, o anche al contrario le visioni barocche, i nomi astrusi, la predilezione soprattutto per le città senza nome, i protagonisti anonimi e i viaggi di mare allucinati, rimandavano inevitabilmente a quel genere di narrazione tipicamente anglosassone.
     È, in fondo, quanto si ritrova in questi tre racconti il cui filo conduttore consiste nell’essere degli apocrifi. Ercolani (da buon psicoterapeuta — che è poi la sua professione — si dovrebbe dire) si è ben immedesimato in Coleridge (1772-1834), di cui ha immaginato il brano del romanzo giovanile Sindarusa; in Gogol (1809-1852), per il quale ha pensato ad un immaginario scambio di lettere polemiche alla vigilia della morte; e in Alfred Kubin (1877-1959), l’autore de L’altra parte, che avrebbe scritto alcuni frammenti di un romanzo inedito, Chàos.
     Marco Ercolani non tenta qui l’operazione che compirono Paolo Vita Finzi con i narratori e i filosofi, e Luciano Folgore con i poeti. La sua non è una imitazione a scopo satirico; anzi, diciamo pure che il suo intento non è tanto quello di fare il verso allo stile dei tre artisti, quanto quello di calarsi nelle loro intenzioni, di carpirne lo stato d’animo, la Weltanschauung, la poetica. E così il simbolismo del viaggio interrotto per Coleridge, la trasformazione religiosa e politica nel contrasto con un suo critico ex ammiratore per Gogol; il brancolare nel buio della vita di Kubin. L’inglese, il russo, l’austriaco con le loro ansie, inquietudini, turbamenti, la ricerca infinita di qualcosa d’inafferrabile sono, in fondo, i prototipi dell’uomo moderno, ma con un di più: ne erano perfettamente consapevoli — e proprio per questo hanno scritto quel che hanno scritto — mentre l’uomo moderno, o forse più esattamente post-moderno, consapevole non è, anzi presume orgogliosamente di aver superato tutto ciò mentre è invece preda del nichilismo più totale.
     Dove Ercolani riesce meglio nel suo intento è, credo, proprio nell’apocrifo coleridgiano, Sindarusa, che poi dà il titolo a tutta la breve raccolta. Qui la mescolanza di storie di viaggi marini tipici del Settecento e di esotismi che si rifanno alle Mille e una notte (in particolare ai Viaggi di Sindbad) è pressoché perfetta: lo stile è vagamente allucinatorio ed il finale rimanda una sensazione esoterico-mistica. Il mistero regna sovrano.
     Un mistero che riverbera sin dalle pagine di un ancor più strano “prologo” che interpreto a mo’ di autopresentazione dell’autore: Alexander Cozens, “pittore e incisore inglese di origine russa”, che sembra ritornare dall’Aldilà ogni notte per apportare modifiche e ritocchi senza fine al suo quadro Il bosco di Nottingham, altri non è che una metafora di Marco Ercolani stesso, psicoterapeuta genovese, che torna su queste pagine per arricchire, completare, aggiungere particolari ignoti all’opera (e alla vita) di Coleridge, Gogol, Kubin.

Gianfranco de Turris