Nel clima di rinnovato interesse per il giallo italiano, spesso penalizzato in passato a favore dei modelli anglosassoni — e adesso tornato prepotentemente in auge grazie soprattutto a fortunate serie televisive e a quel vero e proprio caso letterario costituito da Andrea Camilleri, balzato in testa alle classifiche di vendita con il suo Commissario Montalbano — non si può non fermarsi a riflettere su quelle che sono state da sempre le peculiarità della narrativa poliziesca nostrana, peculiarità che hanno contribuito in certo senso a renderla un genere nettamente diverso rispetto ai gialli americani e inglesi, difficilmente imitabile e particolarmente godibile e avvincente.
Poco o per nulla incline alla violenza esasperata, alla tecnologizzazione dell’indagine tanto cara ai giallisti americani dell’ultima generazione, e volta invece ad un’accurata descrizione d’ambiente, ad un misurato crescendo di tensione e a figure di investigatori abbastanza umane e consuete, il romanzo giallo italiano appassiona il lettore soprattutto per la ferrea consequenzialità della vicenda narrata e per la sua diffusa atmosfera quotidiana che rende molto agevole una sorta di ideale comunanza con il protagonista, generalmente un detective privato o un commissario di polizia dotato di tutti i pregi, i difetti e le fissazioni dell’uomo qualunque.
E su queste linee si muove la vicenda narrata da Concetta Di Pietro, autrice siciliana non nuova alle appassionanti storie d’intreccio: Avola, una pittoresca cittadina siciliana, fa da sfondo ad un misterioso delitto commesso in un’antica dimora nobiliare, una delle tante, dense di un passato ancor oggi restio a morire, che costellano l’isola, sparse qua e là nell’entroterra, con le loro lunghe teorie di stanze, le loro verande odorose di gelsomino, i loro saloni ricolmi di pesante argenteria, la loro vita lenta, scandita su ritmi lontanissimi dall’agitata e frenetica atmosfera continentale.
Un’anziana nobildonna, la duchessa Elide Sanzi, malata da tempo di cuore, viene trovata morta dopo una brevissima assenza dell’infermiera che l’assiste giorno e notte. Unico indizio: uno strano odore di caffè, bevanda assolutamente vietata alla nobildonna e che nessuno vuole ammettere di averle fatto bere. Da qui il dipanarsi di una ridda di supposizioni e di congetture che additano tutte il colpevole nel figlio della defunta, un giovane scapestrato che tanti dispiaceri ha causato alla madre con le sue continue richieste di danaro: la pecora nera, appunto.
In un crescendo di tensione serrato e appassionante, l’autrice dipana lentamente il filo dell’aggrovigliata matassa, affidandone il compito ad una simpatica figura di investigatore, un affascinante giovanotto molto fortunato con le donne, amante della buona tavola, ma dotato di un notevole acume, che pian piano riuscirà a riunire gli elementi sparsi, i piccoli particolari, le singole coincidenze che lo condurranno alla scoperta del vero colpevole.
Ed ecco l’atmosfera sonnacchiosa dell’antico palazzo, con la sua gallonata servitù, i suoi pesanti tendaggi di seta e i suoi enormi saloni, ridestarsi gradatamente e popolarsi di muti interrogativi, di passi ovattati nei lunghi corridoi, di occhi che scrutano ansiosi nel buio della notte, di dubbi e di angosciosi timori…
Delineati sapientemente, i protagonisti palesano le loro debolezze, la loro vera personalità, mettendo al tempo stesso in luce il vero movente del delitto, una delle tante squallide questioni d’interesse che da sempre avvelenano la vita delle famiglie, e non solo in Sicilia, ma al tempo stesso si mostrano nella loro sofferta umanità, nelle loro passioni, in tutti i loro inconfessabili desideri, dando modo all’autrice di mostrare la sua abilità nella descrizione psicologica, abilità che fa balzare prepotentemente dalle pagine, vivi e affascinanti, i personaggi, appassionando il lettore alle loro vicende fino all’ultima pagina.