Le poesie di Viola Di Muzio, anche quelle brevissime, pur essendo concentrate tutte sulla vita interiore del soggetto che le pronuncia, si presentano come un discorso rivolto a qualcuno.
In un soliloquio spesso tortuoso e sofferto, l’io lirico non individua di volta in volta esplicitamente un interlocutore, eppure ciascun testo prevede una situazione di tipo dialogico: un soggetto che parla, “canta”, e uno o più soggetti che ascoltano o leggono. In un desiderio inesausto di oltrepassare i confini del tempo, di perpetuare un colloquio d’amore che, se non è più possibile nella contingenza terrena, può persistere su un piano più elevato, quello metafisico, la poetessa intesse una rete di incontri, rievocati attraverso la memoria e rivissuti esclusivamente sul piano dei sentimenti (rimpianto, nostalgia, assenza, tristezza) e della loro concreta rappresentazione. Così, gli affetti viscerali troncati dalla morte o strappati dalle sempre alterne vicende della vita ottengono una permanenza tutta spirituale e albergano in un quotidiano trasfigurato eppur ancora concreto, librandosi ora in atmosfere eteree e delicate, ora in quadri di coraggiosa franchezza e umanità.
Spirito molto sensibile non solo ai mutamenti del tempo ma anche a quelli dello spazio, ella rende partecipi alle scene tutti gli elementi naturali, da quelli più utilizzati dalla tradizione poetica classica (gli astri, le stagioni, gli agenti atmosferici) a quelli più bassi e apparentemente meno metaforicamente connotati (erbe, insetti). Gli elementi esteriori e paesaggistici, il ciclo biologico della vita naturale e di quella animale e umana, perdono il loro significato letterale e si caricano di simbolismi riposti ed allusivi ad un enigma indistricabile che grava sull’universo.
Ma l’equilibrio non è solo da cercare tra i ricordi del passato. Una quotidianità isolata, il grigiore della vita presente, una coscienza turbata dalla violenze della storia umana che ancora e ancora si ripetono, rivendicano la loro urgenza. L’io poetico, in preda allo smarrimento generato dall’inspiegabile accadere di tali avvenimenti, una sola risposta sa darsi, quella suprema: l’Eterno, datore di consolazione e di speranza, tante volte cercato e trovato.
Ma non è fuga, questa. Non è vittimismo, né nichilismo, perché l’io sente la vita pulsare dentro di sé e anela ad assaporare ancora i momenti di pienezza. Consapevole dell’impossibilità del singolo di far luce sull’oscurità del reale, Viola Di Muzio ora attende fiduciosa, in atto di preghiera-poesia, che si esaurisca l’incertezza del presente, che si verifichi “il miracolo”; ora, senza cedere alla disperazione, ricerca con le sole sue forze, tramite l’ispirazione poetica, un varco che la liberi dalla durezza del proprio stato.
Sul piano formale, a conferire una notevole tensione interna al testo e a proiettarlo da toni semplicemente nostalgici o elegiaci a quelli più laceranti e drammatici, è un sapiente intreccio delle voci: non di interlocutori diversi, ma di toni diversi, a volte contrastanti, della stessa voce, quella del soggetto che parla, che vive un’esperienza di sospensione, in una condizione “liminare” tra il mondo dei vivi e quello dei morti, tra una situazione felice e una di conflitti, tra l’esuberante tempo della giovinezza e il presente apparentemente privo di slanci e di conquiste, tra il silenzio inerte della notte e il fugace scorrere del giorno. La tensione delle voci si coglie soprattutto a livello del ritmo che alterna cadenza, regolarità e dolcezza musicale a rallentamenti, impennate e distorsioni che aspirano al verso libero.
L’intero progetto formale tende a evidenziare una rete densa di elementi tematici e semantici, in un progressivo allargamento della scena che dall’oscurità angusta in cui l’io è ripiegato si apre al fascino di distese galattiche, ove regna il silenzio eterno di infinite lontananze, nell’inatteso profilarsi di una finale liberazione.