È raro, nel vasto panorama della narrativa contemporanea, leggere romanzi nei quali l’indagine sul vissuto dei personaggi non celi più o meno triti contenuti autobiografici a sfondo sentimentale che riescono solo ad annoiare o nel migliore dei casi a far sorridere il lettore scaltrito. L’usignolo non canterà di Arianna De Corti, scrittrice e saggista dotata di una notevole capacità di introspezione psicologica e di una prosa di algida eleganza, affilata ed impietosa come un bisturi e priva di qualsiasi gratuita compiacenza letteraria, si pone invece come un romanzo incentrato su una vicenda emblematica, non tanto per il disagio vissuto dalla protagonista, ma per il suo modo di affrontarlo prima, e di risolverlo poi, imboccando una sorta di tunnel della “memoria riconquistata”, il cui esito potrà, fatalmente, essere soltanto uno, il più terribile e definitivo.
L’autrice dipana con studiata lentezza l’antefatto esistenziale della protagonista, Elisa, una ragazza abbandonata in fasce presso un istituto religioso per orfani, onde celare per sempre la colpa giovanile della madre, che avrebbe gettato un’ombra infamante sulla famiglia di lei, molto in vista e rispettata nel paesino natio, una località marina dove tutti sanno tutto di tutti, e dove il conformismo e la morale farisaica sono il lasciapassare per il ristretto ed elitario clan delle famiglie più in vista, vera e propria coscienza collettiva e manuale di buone maniere della cittadina.
Pagine magistrali sono dedicate all’estremo senso di solitudine della giovane, al tempo piatto e monotono che scandisce la sua vita sempre uguale, almeno fino al raggiungimento della maggiore età, quando un notaio le comunicherà che una casa, un vitalizio ed un cognome assolutamente anonimo le sono stati assegnati dall’ignota bontà di altrettanto ignoti parenti.
Da questo momento scatta in Elisa come una molla, che segue il concretarsi della lenta decisione di conoscere tutto quel che riguarda la sua nascita e i suoi genitori. Fredda e metodica, la ragazza perfeziona il suo piano, riesce a conoscere tutta la sua ignara famiglia, contentandosi sulle prime di osservarne la vita solo un mese all’anno in estate.
Ma le sue riflessioni sono amare, né potrebbe essere diversamente. Eccola la sua famiglia, a partire dalla nonna, vera regina del paese, che blatera ad ogni pie’ sospinto di morale e di decoro, scagliandosi senza pietà contro i falli del prossimo, ma di quel prossimo il cui unico torto è quello di non essere tanto ricco da poter riparare la sua colpa col miglior mastice del mondo: il denaro.
Il verminaio celato dalla morale e dalle convenzioni borghesi si svela così in tutto il suo abietto splendore, indagato gelidamente dall’autrice: poche frasi bastano a rendere tutta l’enormità del male che può celarsi dietro le mura di una sontuosa villa, dietro i falsi sorrisi di anziane signore riunite sotto un pergolato, in una parola dietro la maschera offerta dal denaro e dal potere.
È troppo perché la tentazione di farsi giustizia non si rafforzi sino all’inverosimile. Ed Elisa si vendicherà, tacita e silenziosa come è sempre stata, e nessuno riuscirà a scoprirla: la sua vita anonima e ordinata, scelta forzata sin dall’infanzia, le costruirà intorno un muro impenetrabile dal quale riemergerà per sua scelta soltanto una volta all’anno, con una telefonata che la ricordi alla madre, rea col suo colpevole silenzio e con la sua vile acquiescenza di aver permesso alla nonna di perpetrare il crimine dell’abbandono.