Arianna De Corti

Marghele

Presentazione di Giuliana Cutore

Tabula fati, Chieti, Settembre 2002

 

Presentazione di Giuliana Cutore

     Accade raramente che un romanzo riesca a descrivere, con tratti lievi, ironici, talvolta divertenti, una vicenda interiore complessa e delicata come il nascere di una sincera vocazione religiosa e il suo progressivo inaridirsi fino all’unica possibile scelta coerente: il ritorno al mondo.
     Arianna De Corti, col suo Marghele, ci è invece riuscita benissimo: la sua Marghele, poi madre Chiara degli Angeli e poi nuovamente Marghele, spirito libero e indipendente, afferma la sua volontà monastica come ennesima autoaffermazione nei confronti delle ingerenze quasi ossessive dei genitori nella sua vita.
     Riscoprire casualmente, dopo tanti anni, prima un’infedeltà coniugale del padre, e poi una lettera dell’ex fidanzato intercettata dalla madre per impedirle di sposarlo, costituisce l’occasione montaliana che segna il destino della sua esistenza; ma paradossalmente saranno ancora una volta i suoi genitori, ormai vecchi e malati, a delineare il nuovo spartiacque della sua vita e il suo ritorno al mondo.
     Figlia, studentessa, medico, monaca, moglie, madre: questi i vari momenti della parabola esistenziale di Marghele, tutti vissuti con limpida coerenza e cristallina onestà, e sempre pervasi da un profondo senso mistico, quasi un panteismo di stampo spinoziano, che vede l’orma del Creatore in ogni creatura, dal gattino all’uccellino caduto dal nido, dal più umile fiore alla Sua più alta creatura: l’uomo.
     Ed è proprio in nome di questa religiosità vissuta come parte essenziale e integrante del suo essere umano, e non come ipocrita e vile fuga dal mondo, che matura la decisione di lasciare la clausura benedettina; è il punto di approdo di una profonda e lucida critica dello spirito conventuale, della vita del monastero, dove spesso le virtù cristiane si mutano in vuoto formalismo, dove sovente si chiama virtù ciò che virtù non è, dimenticando quella che è la reale direttiva di San Benedetto, concisamente espressa nella frase che riassume tutta la sua regola: ora et labora.
     La vita del monastero, nota Marghele, è una vita dura e quasi “impossibile da sopportare”, se non si è sostenuti dalla fede e dalla grazia divina e soprattutto, come traspare tra le righe del romanzo, se non si ha giorno dopo giorno la certezza di aver compiuto e di continuare a compiere una scelta giusta e gradita a Dio, scelta che non può mai andare contro la carità cristiana e i comandamenti.
     Ed è appunto quando la scelta monastica si scontra con lo spirito più autentico e sublime del Cristianesimo, per l’ottuso formalismo della priora, che vede i voti monastici come avulsi dal contesto della carità cristiana, che qualcosa si spezza nella vocazione di Marghele: cosciente che Dio non può volere che si abbandonino i propri genitori nel momento del più estremo bisogno in nome dei voti di clausura, dopo un breve periodo trascorso a curare la madre e il padre, prende la decisione di abbandonare il velo, in un congedo estremo e sofferto che segna il ritorno alla sua più profonda essenza di donna, il cui compimento finale l’attende di lì a poco tempo, quando l’amore coniugale e il divenire madre le schiuderanno la dimensione più autentica e vissuta della fede nel Dio d’amore dei cristiani.
     Un romanzo che è un suggestivo itinerarium mentis in Deum; serena e minuziosa descrizione di una fede che cresce e si affina di giorno in giorno, recupera infine e ricrea, proprio grazie al suggestivo senso benedettino del tempo, “tempo senza tempo” come quello della natura, i ricordi di un’infanzia quasi magica nel suo continuo contatto con la natura, in un alternarsi di gioie, dolori, felicità, ansie, dietro cui è sempre e comunque visibile la mano di Dio.

Giuliana Cutore