Se č vero che caratteristiche essenziali della satira sono l'ironia polemica, nelle molteplici gradazioni dell'insidia velata, dell'invettiva, dell'aggressione verbale violenta, e una notevole libertą formale, che si serve disinvoltamente di tutto quel che puņ risultare comico, dal calembour alla rima baciata, dal ritornello agli artifici tipografici, dalla vignetta grottesca alle didascalie pungenti, il volume L'Italia del mio stivale... di Giuan D'Arbą rientra a pieno diritto nell'alveo della grande tradizione comico-satirica italiana, che nella politica, nelle stranezze dei divi e negli slogan pubblicitari ha sempre trovato un terreno fertile da coltivare con risultati talvolta veramente esilaranti.
Per la satira di Giuan D'Arbą va bene ogni cosa: dalla disquisizione para-etimologica sul termine stivale, "capro espiatorio" dei "quotidiani risvolti umorali" di quello strano bipede detto Homo italicus, ai cambi di consonante "Ministero dell'Interno" "Ministero dell'Inferno"; dall'improbabile ma chiaramente allusivo autoritratto del D'Arbą specialista in insuccessi e confusioni patriottiche, sino alla rivisitazione in accento bolognese della famosa Lady Chatterley.
Le stesse figure interpolate nel testo sembrano obbedire ad un piano comune che tutto vuole immolare sul piano della satira: non manca Leopardi, non manca l'impiegato allergico all'informatica, ma non manca nemmeno lei, la Valeria nazionale, pił burrosa che mai e sempre pił anti-Parietti.
Deputati, attori, scrittori dalle sfrenate tendenze alcoliste, sinanco il grande D'Annunzio nella sua veste ipermandrillesca, vampiri e vampirizzati, ragazzine alla moda e refusi parlamentari: tutto cade in un diabolico calderone ribollente dove la satira si fa sempre pił amara, pił corrosiva, pił velenosa, senza per questo mai scadere nella volgaritą o nel cattivo gusto.
Giuan D'Arbą riesce a coinvolgere totalmente il lettore, dalla prima all'ultima pagina, e suscita in lui uno stato continuo di gioia e buon umore, utilizzando con perizia e circospezione le sue ilari doti satiriche. Egli infatti le usa come l'arma principale dell'uomo saggio e illuminato contro il fanatismo e l'intolleranza, contro l'ignoranza e la boria rutilanti e rende la satira espressione di una sana capacitą di vedere uomini e cose nelle loro ridicole presunzioni, arroganze e debolezze.
Servendosi di una corrosiva ma al contempo chiara e scorrevole capacitą narrativa, l'autore ha colto con intelligente acutezza il lato serio di molte cose sciocche e il lato sciocco di molte cose serie, riuscendo a donare momenti di sana spensieratezza pur intercalati da una visione disincantata della realtą quotidiana.
Lo spirito mordace di Giuan D'Arbą sembra richiamare per certi versi l'icastica comicitą di certi racconti brevi del grande Michail Bulgakov, dove il grande scrittore tanto osteggiato nella Russia comunista del suo tempo, sfogava la sua ben giustificata acrimonia contro il regime divertendosi a metterne in rilievo tutte le storture, le incongruenze, le stupidaggini.
Allo stesso modo Giuan D'Arbą, dopo essersi divertito a sbeffeggiare Lenin e Carlo Marx, continua a divertirsi alle spalle della burocrazia e della cinofilia tipiche della nostra cara Italia, imbastendo un improbabile resoconto, anche qui, come nel celebre Cuore di Cane di Bulgakov, con protagonista un cane, sulle disavventure otorinolaringoiatriche di un cucciolo che ha ingoiato una radiolina, scatenando un putiferio di competenze dietro il quale, al di lą della metafora canina, non č poi difficile ravvisare le disgrazie di qualche misero cittadino alle prese con qualche mostruositą fiscale, amministrativa, o peggio ancora sanitaria.
L'agile e simpatico volume di Giuan D'Arbą č senza alcun dubbio la manifestazione tipica dell'Umorismo latino, del castigat ridendo mores fatto di efficaci calembour, di salaci battute, di mordaci prese in giro che si rivelano come vere e proprie caricature verbali che nulla hanno da invidiare alle impietose caricature grafiche di un Forattini o del compianto Jacovitti.