Marco Cottignoli

Il cavaliere ed il buon Dio

Presentazione di Mariano Dardo

Tabula fati, Chieti, Novembre 2005

 


Presentazione di Mariano Dardo



               «Canterò su nuove corde
               te, o novale che risuoni
               dentro l’eremo del cuore.» (1)



     Fare una prefazione ad un’opera letteraria, sicuramente è sempre un grande onore ed un grande onere. L’onore va da se, l’onere, va spiegato: perché parlare di una troppo misurata forma di gentile ed ossequioso “servizio” all’opera stessa. Spero nulla di tutto ciò!
     Il Cavaliere ed il Buon Dio di Marco Cottignoli, non meritano né un disincarnato e patinato elogio, né alcuna più o meno dotta critica; perché al plurale? perché l’opera letteraria, come tutte le opere, è, per chi la crea, simile ad un figlio. L’autore è come un padre: che amorevolmente si occupa dell’educazione del proprio figlio pur sapendo che, domani, egli se ne andrà per le strade del mondo, con solo i ricordi per bagaglio. Parafrasando il poeta: “i figli sono come frecce scoccate dall’arco, fendono l’aria e spariscono alla vista, verso il loro destino”.
     Questo “Cavaliere”, durante la lettura, assume di volta in volta figura diversa, forma diversa, a tutta prima, come l’immaginario vuole, la figura del Cavaliere “tutto d’armi irto e puntuto”, come l’eroica illustrazione “Il ragazzo nella battaglia” di Kay Nielsen, poi di “stanco combattente” che “mena tristo al ritorno”, anche se, “di gloria circonfuso”, come nella celeberrima opera di Albrecht Dürer: “Il cavaliere, la morte, e il diavolo”, ma, anche, quella che mi piace maggiormente, di un giovane cavaliere dormiente, come il “Sogno del cavaliere” di Raffaello.
     Nella immaterialità, pur reale del sogno, si deve cercare la cifra per la lettura di questa opera, e nel racconto favolistico, il suo modo di procedere. Dicono i critici, che il “Sogno del cavaliere”, fosse dittico con le “Tre Grazie”, certo è che il sorriso appena abbozzato del giovine, lascia ad intendere che il sogno non è un incubo! Benanche lo fosse, certamente il dormiente non lo vive come “succubo oppresso”!
     Le figure femminili che vicine, troppo vicine, osservano e, quasi proteggono il sonno, meglio sarebbe il riposo, del cavaliere, sono solitamente indicate come raffigurazioni idealizzate delle dee Pallade e Venere. Pallade, simbolo delle superiori dignità: conoscenza, fortezza, audacia, cioè di “virtù e forza”; Venere, simbolo delle glorie e dei piaceri della mondanità.
     Il libro porto da Pallade, ed il fiore porto da Venere, pur così vicini, sono divisi dall’esile, ma potente “alberello” che, ritto, salendo dalla figura dormiente, spacca la raffigurazione a metà, non permettendo, se non attraverso la figura del giovane, il congiungimento delle dee. Di bel nuovo il cavaliere, al centro della contesa! di bel nuovo l’auriga che doma, con mano ferma il focoso ed irascibile cavallo nero, volto al basso, e trattiene e guida la foga del bianco destriero, tendente all’alto; di novo, ancora il mito, ancora la narrazione, il racconto, la favola, ... della vita.
     E in tutto ciò “il Buon Dio”, dove sta? Molto semplicemente “in cielo, in terra, e in ogni luogo”, soprattutto dentro, nell’animo del cavaliere; in fondo al cuore del cavaliere. A Lui solo, sono rivolti gli atti e le parole che il cavaliere compie e dice, per Lui, le lacrime ed il sangue, in Lui, il ristoro, la confidenza, la fiducia ed il riposo.
     E intanto, le stelle stanno a guardare! la prima cosa che si coglie, leggendo quest’opera, è che il cavaliere è esso stesso metafora del presente reale, è pretesto all’autore per dire il presente, non narrare, ma “dire”, in uno stile atemporale, frammentato, rotto, dove non è importante il “modo narrativo”, ma quello che conta è il poter dire quello che il “cavaliere” pensa!
     È come una raccolta di istanti, dove il moderno e l’antico, il prima e il dopo, si mescolano e si confondono; come in una composizione floreale, dove ogni fiore ha il suo posto, e con gli altri, concorre alla trionfale bellezza del tutto.
     Così l’autore, porta le sue speranze, i suoi lamenti e le sue disillusioni del presente, così come porta i suoi desideri e le sue aspettative per il futuro. Futuro che non accetterà passivamente, ma che attraverso il suo lavoro, tenterà di modificare e portare più vicino al proprio mondo ideale.
     Nel “Il Sogno”, l’autore dice: «La vita è un crescere continuamente. È conoscere e sapere. Combattere sempre. Il nostro fine è tendere verso un sogno. Il morire una possibilità remota. Il rinascere una certezza futura.»
     Cosa dire ancora!? Emergono da queste parole, radici forti e sicure: «Questa è la buona battaglia: atto di fede e di promessa. [...] La vita è un atto solenne di amore.»
     Aldilà di ogni cosa, oltre ogni critica, letteraria e non, restano queste e altre parole che insegnano a non abbandonarsi allo scoramento, a non abbattersi dopo inevitabili sconfitte, a non perdersi e a non conformarsi al “conforme”, a credere in un metafisico non meno reale della fisicità stessa, in breve, a credere in un ideale, che proprio in quanto tale, probabilmente, non vedremo mai concretizzato, ma non di meno, mai saremmo disposti a tradire.
     «I giovani senza padri, non affrontano il futuro, perché non hanno una memoria da difendere», facciamoci memoria noi stessi, sembra dire l’autore, ricordiamogliela noi, rendiamoli partecipi dei nostri ricordi, «spezziamo con loro il pane della Tradizione, facciamoli, con noi, Storia!»

Al suo cantore Amore offrì una foglia
Lucente, e disse: “Il rosaio ed il melo
Vantano frutti, fiori che adescano l’ape;
E frecce d’oro sono nel piumato covone
Del ministro delle messi, fulcro dell’anno,
Estate vittoriosa; e sotto il caldo mare

Piante strane ed arcane si celano inviolabili
Nei canali che filtrano tra lo scoglio profondo.
Sono tutti miei fiori; e i dolci fiori d’amore
Li donai a te quando Aprile e Estate cantavano;
Ma Autunno si ferma ad ascoltare, con strazio
Per le più tristi cose di cui il vento si lagna.
Quest’alloro soltanto non teme i giorni d’inverno:
È il mio ultimo dono: il tuo cuore ha cantato i miei elogi.” (2)

     C’è qualcosa di sacro nella terra che questo cavaliere calpesta, qualche cosa di sacro nell’aria che respira, un sacro immateriale e corporeo, un sacro individuabile, non un vago senso del sacro; il “cavaliere” stesso, metafora e icona di tutti gli uomini, con forte senso di appartenenza, con grandi ideali: uomini che scrutano lontano e soffrono nell’intimo, dove nessuno può vedere. Non un “superomismo”, non l’eroe, ma gli eroi; anche se il “cavaliere”, a volte, sembra “isolato”, privo di connessioni, come se gli avessero staccato i cavi audio/video, o meglio, gli avessero tolto la “linea”, isolato e muto tra la folla, isolato eppure cellula vivente del tessuto che lo circonda: metastasi? Oppure ultima cellula sana di un organismo sfatto?

Mariano Dardo


1) Charles Baudelaire, “Laudi della mia Francesca”, da Les fleurs du mal.
2) Dante Gabriel Rossetti, “L’ultimo dono d’amore”, da La casa della vita.