Silvana Cellucci

La montagna delle storie

Presentazione di Simone Gambacorta

Tabula fati, Chieti, Luglio 2004

 

Presentazione di Simone Gambacorta

     Sarà opportuno avviare questo breve discorso sul romanzo di Silvana Cellucci con l’attenzione necessaria per non rivelare al lettore quel che da solo dovrà scovarvi, liberamente penetrando in pagine dense di impegno e pensiero: se ne porrà quindi in evidenza un aspetto che valga a rappresentarne una coordinata di fondo; un basso continuo, cioè, che pare sempre accompagnare la narrazione, in certo qual modo anche scandendola.
     Diremo subito che questa coordinata è la morte. Sin dalle battute d’avvio, infatti, il lettore scorge tra le righe la sua ombra, la vede assumere forme e contorni differenti, ne indovina le sotterranee movenze, ne avverte la scia. Qualcosa più che un sentore, qualcosa meno che una presenza. In ogni caso una costante della storia, pure per questo pregna d’inquietudine.
     Non è però una morte bergmaniana, per così dire, che si manifesta o meglio ancora si impone nel suo rivelarsi, con un’ineffabile presenza-assenza. Semmai è una morte intravista, colta sull’uscio, appena riconoscibile eppure ricorrente; una morte cangiante, camaleontica, che si nega a una lettura univoca per assumere i toni e i colori delle situazioni ove s’insinua, inafferrabile, libera di percorrere cunicoli occulti, non individuabile, capricciosa perché prossima e distante, subdola perché promiscua nel suo zelo ingordo. Un fiume carsico che affiora in ristagni palustri.
     Non una morte che afferra, ma una morte che sfiora, che plana, pronta a barattare l’apparenza di una fuga con la promessa di un ritorno scaltrito. Come la colpa. Come la colpa che i personaggi rimproverano a se stessi: “l’amoralità fa più gola di un giusto contegno tedioso e antiquato. Sono il divieto, il proibito che allettano: l’amore a tre è elettrizzante, come l’alcol, la droga, la violenza, il sopruso”. Di più: “siamo tutti marci, Arnar, e nessuno di noi è migliore dell’altro; al contrario, meriteremmo tutti gli abissi dell’inferno”.
     La colpa, appunto. La colpa di non saper essere, di non riuscire ad essere. L’impostura del compromesso quotidiano, la corruzione di una coscienza incapace di autenticità. La colpa del torpore morale, del silenzio morale, del vivere, quindi; di essere uomo, di essere donna, di accettarsi per ciò che si è, quando ciò che si è significa nascondere pustole venefiche ed essere fedeli all’obbligo quotidiano della menzogna. La colpa che suscita la morte e che rende la vita piena di pudori, come un delitto.
     Forse, allora, possiamo azzardare una riflessione, suggerendo che il capestro in cui Silvana Cellucci vede dibattersi persino le possibilità dell’amore oscilli, tutto sommato, tra Sclavi e Buzzati. Amore, si è detto; e a proposito: è un amore emunto di linfe, da tempo stillate in una asfittica ragnatela di geometrie e incastri. Così, come una rampicante rinsecchita, la storia di ciascuno si avviluppa e si contorce, nel collasso della miopia, nello sfaldarsi dell’identità, nello sbilenco e stentato incedere di chi smarrisce il senso di sé e della realtà in cui vive: sicché ci si scopre estranei a se stessi e agli altri ed estranei in se stessi e negli altri, fiaccati da sottrazioni imprevedibili e sord(id)e. Del resto, che “nessuno, per quanto faccia, esce vivo dalla vita”, lo disse già Pomilio.
     Tante sono le strade percorribili per entrare in questo libro di Silvana Cellucci. Che tuttavia, pur coerente col suo discorso, non si nega caute aperture verso un più disteso ottimismo. Non casualmente a fine romanzo. Non casualmente con queste parole: “è sempre l’uomo che gestisce sentimenti ed arte, e se ha la capacità di rendere immortale il marmo, potrà farlo anche con il cuore. Egli è una scintilla del divino, e non è detto che tutti debbano ad ogni costo essere cattivi”.

Simone Gambacorta