Silvana Cellucci

Sono stata giovane anch'io

Presentazione di Maria Pia Nervegna

Tabula fati, Chieti, Marzo 2004

 

Presentazione di Maria Pia Nervegna

     È difficile dire a che genere appartenga il nuovo romanzo di Silvana Cellucci, collocato tra il lirismo dell’autobiografia e la narratività del libro di memorie, in un nodo indissolubile tra letteratura e vita privata. La pagina è impressionistica, composta da frammenti contenenti i ricordi e le sensazioni della protagonista narratrice, talvolta separati da una linea bianca, altre volte accostati senza soluzione di continuità, per lo più innestati in immaginari colloqui con gli amici e i familiari più cari. La scrittrice si sforza di recuperare e conservare intatto un preciso ordine temporale, tollerando solo qualche lieve scarto: nate quali rielaborazione di materiale autobiografico, le sequenze sono tutte concentrate sull’orizzonte privato, sulla vita quotidiana di Silvana e della sua famiglia sullo sfondo degli avvenimenti drammatici dell’immediato dopoguerra, senza tuttavia enfatizzare lo scenario sociale e politico ma assumendolo nel fluire anonimo dei piccoli fatti di ogni giorno.
     Con una memoria talmente forte da sostituire il vigore del tempo presente, nella prima parte del romanzo la scrittrice trasforma ogni singolo evento in una piccola storia: il primo giorno di scuola, la nascita della sorella, il regalo del pianoforte, la scuola di musica, le vacanze al mare, le esperienze giovanili laceranti o incantate, ma soprattutto la proiezione verso un amore che si rivelerà impossibile, il tutto all’interno di un universo in miniatura quale è Chieti nei primi anni Cinquanta, all’interno di un ambiente borghese e alto-borghese le cui piccolezze provinciali e i cui artifici collettivi la Cellucci non esita a ritrarre in maniera impietosa.
     Di ricordo in ricordo prende consistenza e si popola un piccolo mondo brulicante di cose, persone, attività umane, odori, sapori, ma si è molto lontani dal quadretto nostalgicamente idillico: la scrittrice non cede alla tentazione pericolosa di abbellire il racconto, non crea sospensioni, non scioglie facilmente nodi che nella vita autentica le sono restati aggrovigliati; lascia il suo vissuto frammentario quasi per smascherarlo, per mostrarne i meccanismi e le facili lusinghe.
     Nella seconda parte il dramma non è più incentrato sull’azione ma su una condizione; esso si fa confessione e riflessione filosofica: il malessere esistenziale resta chiuso all’interno del soggetto ormai adulto e gradualmente si fa incomunicabile; l’individuo non riesce a uscire da sé per aprirsi all’esterno e oltrepassare la solitudine, per ristabilire un contatto intimo e vitale con le cose e con la gente. Allora la sua essenza è proprio nel ritrarsi, nel nascondersi; Silvana non “vuole” vivere, o meglio rifiuta quella felicità propostale dal perbenismo borghese, scegliendo l’arte, l’amicizia e l’amore filiale.
     A rendere il tutto più complicato è la scelta di un narratore autodiegetico che ha una coscienza e un punto di vista estremamente profondi ed estesi e di una focalizzazione quasi costantemente posta sul soggetto onnisciente o — con volute oscillazioni — su narratori di secondo grado aventi ottimi strumenti culturali e intellettivi, nonché grande capacità di penetrazione e proiezione.
     Tra i principali temi ricordiamo la pietas familiare intessuta di rapporti affettivi straordinari quanto insostenibili, l’inconciliabilità tra pubblico e privato, il tema del doppio e della maschera, il “romanticismo” avvertibile in certi atteggiamenti titanici di protesta e di rifiuto, la ricerca della solitudine e l’attrazione per la sofferenza, il tentativo inappagato e distruttivo di trasferire i sogni nella realtà attraverso un amore ideale e idealizzato.
      A segnare questa vita giungono perdite, frustrazioni, tormenti; il mondo risponde alla fiduciosa carica di ansia e affetto di Silvana con indifferenza o sadismo. Non manca l’esperienza del dolore fisico che per la donna è condizione ineliminabile dell’esistenza; la malattia che tocca lei stessa e le persone più care diventa non solo l’equivalente fisico e psicologico di un rapporto di estraneità, di repulsione tra l’io e il mondo, ma anche — all’opposto — il segno di un’elezione conoscitiva, di una sensibilità esasperata che sa dare un senso a ciò che le accade.
     Più volte sopraffatta dalle vicende del mondo, la protagonista non permette però al suo occhio di velarsi di pianto: non si rassegna, ha le sue idee e i suoi principi, e invece di reagire con smarrimento o cieca istintualità ella oppone alle violenze della sua storia un profondo amore per la musica e il culto della scrittura, di cui conserva, caparbiamente, una concezione sacrale, simbolica.
     L’autrice avverte prepotente il bisogno di narrazione: elle stessa cresce in mezzo a narrazioni, quelle dei nonni, dei genitori, dei compagni che quasi sostituiscono il valore dell’esperienza. Per questo l’atto di scrivere — che si alimenta di storie — acquista uno spazio di straordinaria importanza nella sua vita mentale.
     La letteratura non è solo il mezzo privilegiato di risarcimento morale, di consolazione e gratificazione emotive, ma anche strumento di conoscenza che non esclude la possibilità di una soluzione. Essa “salva” dai naufragi dell’esistenza e per questo il suo sortilegio deve essere trasmesso alle nuove generazioni ed eternato attraverso l’insegnamento. Ecco allora che sul finale il racconto si interrompe e si fa metanarrazione, dichiarazione di poetica: con fervore e vitalità rinnovati la scrittrice parla dei suoi personaggi, del potere della scrittura, dell’ispirazione come folgorazione, ma anche delle difficoltà del mestiere quale pratica lenta e paziente, del fine della lettura, del pubblico e del successo letterario, della mercificazione libraria.
     Anche nei momenti in cui la vita sembra aver prevalso sulla letteratura, Silvana non ha smesso di servirsi dell’immaginazione per costruire mondi, per cercare appassionatamente un valore amato e negato, per reagire alla sconfitta del sentimento e della conoscenza.

Maria Pia Nervegna