Silvana Cellucci

Un fiore che nasce...
Un fiore che muore

Presentazione di Sergio Pensato

Tabula fati, Chieti, Giugno 2003

 

Presentazione di Sergio Pensato

     Quali sono le sorti del romanzo oggi? Grazie alle potenti tecnologie dell’informazione, il mondo delle immagini si sostituisce a quello reale. Mentre parola e significato diventano merce che si scambia in una cultura materialista, l’immaginario aderisce alla rappresentazione virtuale nel fertile terreno di film e serial televisivi. Leggevo in una popolare rivista di home-video la recensione di un libro: «... peccato — concludeva — che non se ne sia fatto un film». Il best-seller somiglia spesso ad una puntigliosa sceneggiatura.
     Ben venga quindi questo romanzo di Silvana Cellucci, la cui prosa ritorna al romance, alla lirica cioè costruita tono su tono sull’affetto eroico o sentimentale. Se la vita si sconta vivendo, l’amore di questa storia è irredento: mai una parola sopra le righe; la voce dell’io narrante arabesca gemiti e sospiri nella figura di una signora troppo per bene. Eros non manifesta la propria essenza dionisiaca: né avvampa, né attinge nuova forza al desiderio perché si liberi. Invece il desiderio cristallizza, come certi insetti nell’ambra, in una lingua estetizzante e sterile; evoca una personalità morbosa.
     Se per una certa estetica è brutto l’atto sessuale in sé e per sé, anche un’attrazione può apparire oscena ed esercitare l’analista a vanificare le proprie emozioni e non incrociarle con l’altro. Allora soma sarebbe il corpo sospiroso, ricalcato dalle parole che gli si attribuiscono; in tal caso totalmente inerme perché spogliato di quel che lo farebbe bello. In un famoso racconto di Moravia la passione trasmuta nel grottesco, man mano che il protagonista si distacca dall’amante. Per contro, la pornografia — ed in generale ciò che costituisce sconcio — talvolta sublima in virtù di una afferenza creativa.
     Non trattandosi di un romanzo psicoanalitico, la scrittrice evita comunque di confrontarsi alla natura. Intendo che le figure di Bovary e Karenina esprimono tanta sapienza letteraria perché l’uomo è indispensabile alla letteratura, per la peculiarità di provare e suscitare affetti. Non faccio un confronto ingrato con Flaubert e Tolstoi: piuttosto è l’orizzonte della Cellucci a renderla riluttante quando potrebbe affondare il coltello nelle piaghe.
     Bello il gioco di specchi in cui la scrittrice dissolve i protagonisti, che svelano il rispettivo gioco delle parti... Di più, per Milan Kundera «il romanzo è il gioco di Dio». La simmetria rivela il disegno. La protagonista del romanzo cova un fuoco d’artista sotto i modi affettati: è l’alter ego della Cellucci nel mondo del libro speculare al nostro, è demiurgo in sua vece. La figura di Nino si ripete ossessivamente senza saper assumere carne e sangue in quella liturgia malsana: la passione — dicono i Veda — anima il nostro fantasma interiore e soltanto prendendone consapevolezza strapperemmo quella maschera per incontrare il vuoto.
     Silvana Cellucci conferma il senso di iniziazione del suo racconto allorché si distende nel sorriso finale. Il mito si realizza puntualmente; l’artefice raccoglie gli attori per la prossima recita.

Sergio Pensato