«Molte volte ci si chiede cosa siano la sofferenza, l’angoscia, il dolore... Pensiamo istintivamente alla fame nel mondo, alla disoccupazione, alle guerre, alle malattie, ma nessuno mette in conto la miseria morale, il dramma che si scatena dentro di noi, che non ci dà riposo né di giorno né di notte! La sofferenza dell’anima sembra non esistere per nessuno, e soltanto perché non la si può vedere né toccare!» È in queste righe, vergate quasi al termine di Un’estate da ricordare, che Silvana Cellucci svela l’intimo tormento della propria narrativa, che pervade tutti i suoi racconti. Una dichiarazione d’intenti, visto che questo romanzo s’inscrive nella gioventù della prolifica narratrice abruzzese, e di quella verde età presenta caratteristiche e peculiarità.
Innanzitutto, il ritmo: il racconto procede spedito, a spron battuto, con un desiderio narrativo mai pago, che costringe il lettore a trattenere il fiato ad ogni pagina e lo stimola con continui capovolgimenti di fronte. L’azione può apparire eccessivamente repentina o la coerenza stessa del racconto può scricchiolare, ma è la fitta trama di richiami interni e di rapidi flash-back, che puntellano la storia e si propongono come “ancore di salvezza” per la comprensione a posteriori, a condurre in porto una storia che appare normale, ma che cela dietro la sua manifesta ed ostentata quotidianità il senso del dramma. Non a caso, dei protagonisti, i due giovani innamorati Marco e Ilary, travolti nel breve volgere di un’estate da una passione che li renderà rapidamente “grandi” nel turbinio delle situazioni che affronteranno, il lettore si fa da subito un’idea che la narrazione progressivamente smentirà clamorosamente.
Neppure l’amore, che è il tema dominante di questo, come di tutti i romanzi di Silvana Cellucci, si iscrive nei canoni della “normalità”, quella che il lettore scorge all’inizio della narrazione: una ragazza alla ricerca del sentimento, che vuole vivere un’estate da raccontare al suo diario e da rileggere poi malinconicamente in inverno e un ragazzo che sembra aver consumato tutta la sua breve vita dietro ad alcol e droga. Lei ricca e lui povero: un classico della narrativa cosiddetta “romantica”, che in decine di romanzi alla Liala ha sfondato nel cuore del pubblico per poi trasmigrare nella cinematografia. Ma le conclusioni non possono essere tirate così facilmente, perché la vita è un’equazione a molte incognite. Così tante che con dei colpi di scena a ripetizione, degni della migliore palliata plautina, le storie s’intrecciano e al piano amoroso dei due ragazzi si sovrappone il piano, non meno complesso e ricco di apparenti normalità cariche di sofferenza, dei relativi genitori, il che fa pensare ad una sorta di infelicità “congenita”, inscritta quasi nel DNA dei protagonisti.
Ma perché si è infelici pur avendo l’amore? È una domanda che resta insoluta, soprattutto nella mente del lettore che si aspetterebbe un lieto fine, le cui premesse sono insite nel racconto stesso. Il lieto fine non è solo atteso, è razionale. Ma è la stessa Cellucci che interroga il lettore: «La ragione, l’intelligenza, che ruolo giocano contro una violenta impressione?» Scomodando Blaise Pascal, si potrebbe rispondere che il cuore ha delle ragioni che la ragione non comprende, ma più che cercare di spigolare attorno alle vicende, occorre assumerle in sé e per sé, così come la narratrice ce le presenta, senza pretese di classificazione, così come i personaggi di Un’estate da ricordare mostrano di fare di fronte alle vicissitudini che affrontano.
Del resto, non è questo l’atteggiamento dei giovani di fronte alla vita? E non è questo un romanzo della giovane Silvana Cellucci? La vita è quella che è, e non sempre ciò che sembra irrimediabilmente perduto è per sempre irraggiungibile. Infatti, il romanzo si chiude con tre puntini di sospensione: uno spazio aperto verso l’ignoto.