Silvana Cellucci

La dama di picche

Presentazione di Maria Pia Nervegna

Tabula fati, Chieti 2003

 




Presentazione di Maria Pia Nervegna




     Il testo di Silvana Cellucci invita fin dalle prime battute ad una lettura “attiva”, a considerare senza timori le nostre presupposizioni, i nostri pregiudizi di destinatari dell’opera, a metterli costantemente al vaglio critico e ad adattarli a contatto degli elementi della narrazione. Ogni sapere totale e definitivo deve essere abbandonato: esso si costruirà e de-costruirà in un continuo processo d’aggiustamento che non nega mai l’esistenza degli oggetti che indaga. Tale atteggiamento aperto, duttile e disponibile a conoscere e interpretare secondo nuove regole del gioco, maturato da noi lettori durante il corso della narrazione, è una conquista dura ma inevitabile cui pervengono in ambito etico-esistenziale anche i protagonisti del romanzo.
     All’inizio di quello che potremmo chiamare “itinerario di formazione”, essi vorrebbero assicurarsi la certezza di verità globali che assumano e spieghino, reggendolo, tutto l’esistente, fornendo principi assoluti e fissi di giudizio e comportamento (il bene, la perfezione, Dio, la giustizia, il libero arbitrio); poi, pian piano, la fondatezza di tali principi è messa in discussione da un’ottica relativistica frammentata e distribuita tra svariate voci e punti di osservazione; in alcuni momenti essa è addirittura rovesciata nel serrato e contraddittorio confronto tra natura e spirito (Niente è assoluto, nessuno ha ragione in questo atomo, eppure tutti hanno ragione. Dipende dall’angolazione…); solo alla fine sembra recuperata la dimensione di una storia dove Dio è presente e dove ciascun individuo è chiamato attraverso le sue capacità critiche a conciliare l’autodeterminazione e la coerenza con le esigenze sentimentali più intime e personali.
     È l’amore impossibile a generare nell’animo dei personaggi tormento e infelicità, ma esso è solo la causa immediata del loro malessere esistenziale. La scienza, il progresso, il benessere diffuso ma vuoto di senso hanno generato nell’umanità un orgoglio smisurato e un individualismo esasperato, distruggendo il mondo del passato e generando smarrimento e miseria materiale; la mercificazione moderna, l’avidità di denaro, il consumismo, hanno acuito gli istinti più bestiali e distrutto tradizioni, certezze, valori, al punto da non lasciar intravedere alcuna speranza di riscatto futuro: molte sono le dure requisitorie nei confronti della società contemporanea disseminate nel romanzo, icasticamente rappresentate da un’immagine di notevole potenza visiva, il crocifisso poggiante su un barattolo di Coca Cola.
     A livello individuale tale situazione si realizza in una sostanziale solitudine, in un’insopportabile aridità, in un insuperabile ed egoistico senso di possesso che rende impossibile una scelta razionale. Aspirare ad una perfezione immobile e ad una felicità senza tempo, questa è la tragedia dei personaggi; accettare i limiti della propria condizione e ampliare l’orizzonte dell’esistenza individuale è invece la loro conquista, raggiunta senza superbia, a prezzo di dolorose rinunce e notevoli sacrifici.
     La sensibilità sconvolta e incerta dei due amanti infelici, dei loro amici e del loro consigliere si manifesta soprattutto nel segno della chiusura psicologica: l’espressione verbale, le confidenze, le richieste di aiuto non coincidono con una reale comunicazione, né ottengono l’aiuto sperato; attraverso la parola i personaggi sperimentano ciascuno la propria limitatezza e il senso di degradazione conseguente al prevalere del male nella realtà esterna e in se stessi e all’impotenza di chi è giusto.
     Tale “difetto di espressione” si evidenzia anche nell’uso del monologo interiore (spesso svolto alla presenza di un “tu” che non replica o che innesca a sua volta un monologo) che smaschera allo stesso personaggio la presenza di un “altro sé” più istintivo e autentico e che lo scopre vittima di un pregiudizio infondato, per un errore di forma, un gioco delle parti, mentre l’uso della focalizzazione interna e la presenza di punti di vista parziali e soggettivi sottolineano la superiorità della dimensione della psiche rispetto all’oggettività del reale.
     La liberazione da tali angustie sembra giungere dalla musica di Ciaikovski: essa funge da “cemento” sentimentale tra i due amanti; il suo potere evocativo riflette le risonanze interiori che la parola non può dare, penetra nell’essenza segreta del mondo, sublima le tendenze più turpi o inquietanti della coscienza. I personaggi subiscono in maniera totalizzante il fascino del suono e sembrano ricercare nella fruizione passiva di quest’arte se non una via di fuga, quantomeno un risarcimento immaginario alla loro condizione di degradazione esistenziale.
     Anche il paesaggio e gli elementi naturali divengono nel romanzo la proiezione simbolica dello stato d’animo del soggetto: l’autunno perfido, Parigi che trema di freddo, le acque nocive e malsane della Neva, la torbida Senna, l’impetuosa tramontana, il cielo corrucciato, il vento crepitante e deflagrante, accentuano agli occhi del lettore il senso di solitudine e di lugubre desolazione, ma anche l’accanito furore esistenziale dei protagonisti. La frequentazione o l’attraversamento di tali luoghi, gli spostamenti spaziali o i veri e propri trasferimenti rappresentano un’occasione dinamica di crescita, di scoperta del nuovo e allo stesso tempo esperienza lancinante della labilità del tempo e della mutevolezza del reale.
     A tale proposito interessante è notare l’immagine sdoppiata, “binaria” della donna e dell’amore. Emanuela è al tempo stesso angelicata figura salvatrice e vittima della castità coniugale; è erotica seduttrice e metafisica purificatrice; è madre tenera e responsabile ma soprattutto amante appassionata, con alcune caratteristiche fisiche della famme fatale tenebrosa e inquietante (giovane, splendida e bruna, dai lunghi e folti capelli ondulati e con gli occhi neri) che minaccia lutto e distruzione. A lei si sovrappone il fantasma della Dama di picche, risorto dalle pieghe di un inconscio allucinato a suscitare terrori e angosce e che invano si tenta di soffocare, quasi incarnazione della punizione divina nell’ambito di un cupo senso di peccato che pervade tutta l’opera.
     All’impossibilità di trovare realizzazione alla passione corrisponde parallelamente il senso di esclusione dal contesto sociale di appartenenza e una condizione di generale sradicamento, di scacco perenne. I personaggi appaiono malati di “velleitarismo” e di inettitudine, fanno poco o nulla per risolvere i problemi che li affliggono; spesso mentono a se stessi e risultano sempre sconfitti di fronte ai conflitti reali. Il modello esistenziale romantico Puskin-Ciaikovski-Alfieri che si propongono di emulare, secondo il quale le anime più elevate sono diverse e infelici perché capaci di vita interiore ricca e profonda, di fatto è ben lontano; non a caso, lo pseudonimo che Vincent Aumont sceglie a indicare il proprio alter ego è Onégin, personaggio del citato romanziere russo, un uomo “superfluo”, incapace nei fatti di realizzare il proprio desiderio di superiorità, una specie d’antieroe byroniano.
     Abbiamo parlato di lettura attiva: per tutto il romanzo il lettore ha il sospetto che ciò che accade sia il frutto di fantasie eccitate o di latente follia; la valenza sinistra e ambigua degli inizi sembra stemperarsi nelle spiegazioni rassicuranti e ben più razionali degli ultimi capitoli, ma il dubbio inquietante rimane, tra il proliferare di doppi, di seconde identità, di false generalità, di omicidi-suicidi che continuamente ripropongono il rovesciamento, la negazione, la maschera dell’identità.

Maria Pia Nervegna