Nato da uno dei più recenti moti del prolifico afflato narrativo di Silvana Cellucci, Come l’abbraccio dell’edera rappresenta in maniera sintetica e piena il mondo letterario della romanziera teatina che nella sua voluminosa produzione canta ineffabilmente l’amore con quell’anelito, purtroppo mai pienamente raggiunto e forse irraggiungibile in una realtà che fa della materialità il metro di ogni cosa, alla totale purezza, simbolo e cifra di un vagheggiato pianeta ad un tempo infantile e maturo.
Infanzia e maturità infatti si condensano nel personaggio di Pierrot il “negretto”, fulcro di questo nuovo racconto: ancora bimbo per la legge, ma già grande per le sofferenze patite (“Chi vive in mezzo alla strada, per non cadere, è costretto a crescere in fretta”), egli assiste a volte da spettatore angosciato ed impotente, altre e più spesse volte quasi da saggio consigliere, al dipanarsi di una trama che, come è solito accadere nel mondo della Cellucci, trascina il lettore in un vortice di situazioni e di micro-storie che s’intrecciano quasi a confondersi e a smarrirsi e che inevitabilmente sorprendono, costringendo a rivedere giudizi formulati a priori e simpatie che qualche personaggio attrae quasi spontaneamente.
Nulla è certo nella vita, nulla di completamente svelato nella verità: questo appare uno dei messaggi possibili disseminati nel romanzo con la leggerezza di un post-it appoggiato sulla scrivania, sulla quale si affastellano i moti dell’animo dei personaggi, che parlano come anziani navigati dalla vita, pur se anagraficamente la storia assegna loro un’età ben più verde. Lo chiarisce, quasi giustificandosi, l’autrice stessa, quando mette in bocca alla protagonista, Vanessa, una frase tagliente: “Si può essere maturi a venti e immaturi a cent’anni!”.
Ma allora a cosa affidare la vita, se essa è volubile, vulnerabile e soprattutto menzognera ed ingannatrice attraverso gli esseri umani? La risposta c’è nel romanzo, ma la stessa autrice appare timorosa nel formularla. Omnia vincit Amor. Et nos cedamus Amori: mai come in quest’Opera l’emistichio virgiliano dà il senso al racconto. L’amore vince davvero tutto e alla fine, nonostante le resistenze della ragione, della vergogna, dell’onore, delle mille convenzioni sociali imposte dall’esterno, ogni uomo deve inchinarsi e cedere il passo ad esso.
È per amore che la trama può sciogliersi in un “moderato” lieto fine (tipico della scrittura della Cellucci, che in questo romanzo si “scopre”, mettendo in bocca al suo piccolo protagonista parole sconsolate e rivelatrici: “Che tetro romanzo è la vita, Jacob, e se anche avesse un lieto fine, subito dopo cesserebbe con la morte”), è per amore che essa era iniziata, facendo scoprire solo alla fine che il narratore fittizio, quel Giulio Boni che appare come un “corpo estraneo” alla storia, che interviene a volte anche in maniera ingombrante nelle situazioni, è simbolo di quella resa al sentimento nobile che, nonostante lo si possa aver sporcato in ogni maniera (“È così sporco, così osceno amarsi carnalmente”), rimane sfolgorante nel momento in cui mette in atto la sua ispirazione, che è sempre positiva.
Questo nuovo squarcio che permette al lettore di penetrare nel mondo interiore di Silvana Cellucci evidenzia ancor di più le sensibili e delicate corde del cuore della narratrice che scrive sì per diletto e per insegnamento, ma soprattutto per bontà ed amore verso una realtà che potrebbe essere davvero migliore se tutti si facessero guidare dall’Amore.