Marcello Bonati, valido scrittore milanese, è ormai giunto alla sua seconda prova narrativa con questa raccolta di racconti che in certo senso costituisce il seguito di Cercando i colori per l’uomo (Tabula fati, Chieti 1998). L’opera di Bonati è infatti tesa ad un’originale e feconda ricerca artistica sull’uomo, sulle sue inquietudini, sui suoi segreti, sui misteri del suo essere.
La ricerca parte da una zona al di qua dell’uomo, dalla dimensione stessa del racconto, spazio-tempo virtuale, definito e delimitato dalla pagina bianca, “spazio” ancora “inesistente del racconto che racconta se stesso”. Nascono così i lenti incubi de La stanza buia, e de La casa vuota, racconti nei quali, come in molti altri di Bonati, gli echi dell’intertestualità si fanno palpabili, ricordando al lettore il celebre Giro di vite di Henry James, o concretandosi in un nome, Berkerville, che non può non richiamare le fosche immagini delle tetre lande desolate de Il mastino dei Baskerville di Arthur Conan Doyle.
Se per Calderon de la Barca “la vita è sogno”, per Bonati “la vita è gioco”, ed un gioco infinito è l’esistenza dell’uomo. Immerso in una dimensione narrativa onirico-poetica, il racconto che dà il titolo alla raccolta, appunto Il gioco dell’uomo, definisce audacemente la narrazione “incrocio di ciò che è e di ciò che immagino”, così come l’universo fantasmatico de La stanza dei giochi si era im-plicitamente posto come metafora del luogo simbolico dello spazio narrativo.
Ed è proprio questo interscambio continuo e fecondo tra tempo-spazio del raccontare e tempospazio delle vicende narrate che rende così stimolante e insieme enigmatica la prosa di Bonati, incitando il lettore ad una ricerca sempre più approfondita delle diverse stratificazioni simboliche presenti nei racconti.
Così ne Il gioco dell’uomo la partita a carte che apre la vicenda si rivela metafora della vita, della quotidiana e rassicurante esistenza umana sempre minacciata da un ignoto incombere di sinistre presenze: desideri inconfessabili, oscure pulsioni, timori ma anche bramosie di una vita diversa, di un contatto immediato, anche se potenzialmente pericoloso, con quella ferinità che costituisce il lato notturno ed istintuale dell’uomo, aspetto per sua stessa essenza estraneo e al di là da quel “gioco” che è l’esistenza diurna.
E da queste presenze l’uomo può difendersi soltanto prendendone coscienza, abbandonando cioè le “regole del gioco”, il quotidiano, il razionale, il consueto, per evadere ad una nuova vita, svincolata dalle regole ferree ma estrinseche del sociale, e la sola capace di recuperare fecondamente l’aspetto istintuale dell’uomo.
Questa dimensione notturna, onirica dell’esistenza, dove si spengono “tutti gli interruttori della mente” per riacquisire la coscienza del corpo, costituisce l’unico possibile approdo alla vita autentica: si delinea qui un’implicita dialettica tra l’esistenza e la vita, tra il polo inautentico e quello autentico dell’uomo, il cui punto d’incontro sarebbe “l’incrocio di ciò che è e di ciò che immagino”.
In questa inespressa, squisitamente intuitiva dicotomia, che mai può esser colta nella sua interezza, si colloca l’epifania della donna, ad un tempo strega, maga e angelo, dantesca Beatrice, sensuale Fiammetta e Circe malefica e ammaliatrice: nella donna, per Bonati, si racchiudono morte e vita, piacere e dolore, ragione e istinto, e solo attraverso questa enigmatica creatura si può giungere a quel flusso continuo tra mente e corpo nel quale, forse, è racchiusa l’essenza del “gioco dell’uomo”, “corda tesa”, come cantava Zarathustra, “tra la bestia e il superuomo”.