Qual è il carattere specifico delle filosofie del Novecento? Domanda ardua, poiché il Novecento filosofico è uno dei periodi in cui il pensiero si è maggiormente differenziato. Se confrontiamo le correnti novecentesche con quelle ottocentesche possiamo anche trovare in esse le premesse delle filosofie contemporanee: da Hegel e da Marx la scuola di Francoforte; da Nietzsche la scuola francese dei Deleuze, dei Bataille, dei Derrida... Dal positivismo il neo-positivismo; dalle ricerche sul linguaggio dei romantici l’ermeneutica e l’attenzione per ogni struttura, fino ad arrivare nei pressi di Foucault (la cui “morte dell’uomo” sarebbe immensamente piaciuta a Novalis).
Ma questi sono collegamenti da manuale. A noi interessa rilevare la “rottura”, il trauma che il pensiero del Novecento ha in più rispetto a tutto il passato della filosofia. Questo trauma è la comparsa della Fenomenologia; da essa non si sono sviluppati solo filosofi come Heidegger e Merleau-Ponty, ma anche interi movimenti come l’esistenzialismo. Porre, dopo il positivismo, il progetto di una filosofia come scienza rigorosa è davvero traumatico e inquietante; la ricerca di essenze che in qualsiasi istante possono essere intuite fu inaccettabile per una figura come quella di Walter Benjamin, in cui si agitava la grande eredità platonica in cui la verità parla all’uomo in modo indiretto. Husserl decise di guardare il mondo. Può sembrare incredibile, ma sono pochi i filosofi che lo hanno fatto radicalmente. Il solco tracciato dalla Fenomenologia è tanto profondo nel Novecento d’aver lasciato delle tracce in poeti come Rilke e Valéry, ma non solo, la fenomenologia è presente anche in filosofi che l’hanno totalmente ignorata, come uno sfondo e una presenza ineliminabile.
Nel Novecento non troviamo un solo filosofo che non costituisca almeno una contro-proposta nei confronti dell’approccio fenomenologico. Croce non parla di Husserl, ma attacca pesantemente Heidegger, eppure un confronto tra l’intuizione eidetica e l’intuizione pura sarebbe assai interessante e porterebbe a delle scoperte. Cioran non sopporta nessun sistema, eppure egli è il vero fenomenologo dell’anti-sistema, è lui che coglie le essenze più nascoste attraverso i suoi disgusti e le sue fobie. Anche Ortega, che criticava decisamente la filosofia di Husserl, vede la vita dell’uomo come un qualcosa da fare, come un’esistenza che precede l’essenza, toccando così l’esistenzialismo che proprio da Husserl proviene.
Ma perché “Pensiero estremo”? Perché parlare di Weininger, Bataille, Croce, Derrida, Deleuze, Ortega, Heidegger e Cioran? E se esiste un pensiero “estremo” non si dovranno chiarire anche i pensieri non estremi e quelli che stanno “a metà strada”? Se per Deleuze “pensare è un colpo di dadi” (1) per Bataille “la filosofia usa il linguaggio in modo tale, che mai al linguaggio faccia seguito il silenzio” (2). E l’intera storia della filosofia non è forse la dimostrazione, l’evidenza di questo uso del linguaggio a cui non può fare mai seguito il silenzio? E il pensiero di Platone, di Socrate e di Aristotele non fu sempre un “colpo di dadi”? Forse il carattere estremo che si intende rilevare è la consapevolezza di questi aspetti, come se i filosofi del Novecento che qui trattiamo avessero capito il trucco, come se i dadi fossero truccati e loro continuassero ugualmente a giocare, nella speranza di un tiro che superi il trucco...
Weininger fu un filosofo estremamente precoce, e la sua volontà di mediare forme non mediabili (Kant, Wagner, l’aspetto religioso) fanno di lui uno degli esempi di questo gioco assurdo, di questo tentativo impossibile che il Novecento incarna anche in altri ambiti (si pensi alla poesia di Pessoa, al romanzo di Musil, alla musica di Mahler, alla pittura delle avanguardie). Poi viene Bataille, che di tale gioco sembra fare l’essenza stessa della sua ricerca; cosa sono, dopo tutto, la gioia davanti alla morte e l’al di là del serio se non la danza di un pensiero che sa d’essere inguaribilmente estremo, immerso nella ricerca di tutti gli estremi possibili? Poi ci troviamo di fronte alla coppia Deleuze-Derrida, questi “atleti” della differenza che altro non sono se non gli atleti del pensiero come gioco rischioso, come creazione di concetti e come decostruzione.
Si troverà incomprensibile, a questo punto, la presenza di Benedetto Croce, ma Croce è probabilmente il più estremo di tutti, nel suo ostinato umanesimo, nella sua ostinata fede verso le capacità spirituali dell’uomo.
Heidegger invece è il rappresentante di una ricerca ontologica che molti, troppi, hanno creduto la più estrema e la più radicale della filosofia tout court. Si tratta di un’illusione, poiché dietro il Sein heideggeriano bisogna scovare il suo stile ipnotico, il suo modo di affascinare che lo rende il sofista estremo della contemporaneità. E di stile si tratta anche nel caso di Cioran, ma il suo stile (di pensiero) non vuole affascinare, non vuole legare a sé nessuno, è un movimento che lacera se stesso, che si ossessiona per non lasciarsi più ossessionare da nulla.
Per finire: Ortega y Gasset. Perché? Perché lui stesso considerava l’espressione: “filosofo spagnolo” una contraddizione in termini. E quando Heidegger gli chiese il perché di tale affermazione Ortega gli rispose: «Perché sarebbe assurdo come dire: un torero tedesco.» In effetti Ortega oscilla tra il gesto del torero e la riflessione lucida, tra l’esistenzialismo e il destino.
Il compito di questa introduzione era tutto nel mostrare il filo rosso che collega filosofi apparentemente lontani, filo che la Fenomenologia non smette di tessere, a dispetto di ogni frantumazione, di ogni disegno, di ogni colore del tessuto, verso un telos che non rinuncia alle proprie metamorfosi.
Valentino Bellucci
1) G. Deleuze, Foucault, trad. it. di P. A. Rovatti e F. Sossi, Cronopio, Napoli 2002, p. 117.
2) G. Bataille, L’erotismo, trad. it. di A. dell’Orto, Mondadori, Milano 1972, p. 287.