Benché elaborata con grande perizia letteraria, la poesia di Francesco Baldassi rivela un impianto formale e contenutistico scientemente “violento”.
Nell’accingersi a descrivere il malessere che affligge l’animo umano l’autore non recepisce la componente ottimistica e serena di certe correnti filosofiche, antropologiche o sociali, né sottolinea adeguatamente in questo contesto, quel fondamentale aspetto del Cristianesimo che vede nella rifondazione del rapporto con Dio la possibilità di una relazione armonica con il creato e di fratellanza fra gli uomini; il leitmotiv che riassume la sua esperienza poetica è la negazione del mondo, la condanna dell’uomo, ontogeneticamente votato alla profanazione assurda del reale, qualora non si ponga sotto il segno della Croce, la polemica partecipazione politica e sociale, in quanto strettamente vincolata alla realtà storica del momento (la guerra, l’olocausto, il terrorismo, la violazione dell’infanzia). Ben venga allora la “violenza” se questa si fa occasione di meditazione personale, espressione di una piena consapevolezza teologica, scandaglio sull’eziologia del male, strumento di scuotimento delle coscienze.
Ben venga la “violenza” esercitata sulle aspettative del lettore da parte di un letterato di rango, sensibile alle più diverse suggestioni culturali, filosofiche e letterarie, autore dalla ricca cultura non solo teologico-biblica, ma anche storico-letteraria, che inaspettatamente si propone di non incaricare la filosofia né qualsivoglia altra scienza di raggiungere il fondo abissale del degrado dell’uomo, e profilare la speranza di un’inversione di tendenza: egli affida questo compito ad una ragionevolezza radicata profondamente nella sua confessione di fede.
Baldassi è il poeta che canta della violenza umana, ma anche della contemporanea — e pertanto tragica — commistione di questa alla commozione più autentica, allo slancio sovrumano di pentimento e di liberazione di cui solo l’uomo è capace.
Grazie alla perfetta, intima connessione tra forma e contenuto, tale scelta tematica si traduce nella violenza generata dal dissidio interno di un linguaggio elaborato, rarefatto, intellettualistico; esso è capace di gelare l’ispirazione, di contenerla in un finissimo cristallo, ma anche di aprirsi spesso democraticamente a forme della più varia provenienza per lasciar sgorgare liberamente un desiderio profondissimo di comunicazione e di preghiera universale, per forzare incessantemente i limiti del dicibile, aspirando a manifestare l’intensa interiorità del poeta nel suo lacerante desiderio di Dio, il suo smarrimento, il suo dolore. Tale ricchezza linguistica sottolinea la scelta dell’autore di porre in centralità la poesia come antidoto a ogni disperazione, come la sede privilegiata in cui la parola umana, indegno simulacro della Parola divina, verifica se stessa e il mondo, proponendosi come risarcimento alla vanità del reale.
Ne deriva un risultato stilisticamente eterogeneo, un registro intensamente, drammaticamente contratto, un dialogo più volte spezzato dalla disperazione ma sempre, puntualmente ricomposto, un dettato solenne, una cupa pittoricità delle immagini, l’energia espressiva, il ritmo incalzante, in carattere con i temi dei componimenti. La metrica risponde plasticamente alle diverse funzioni, siano esse espressive o didattico-polemiche, mentre permane una certa imprevedibilità del ritmo e della struttura strofica, adattati ora alle forme degli inni liturgici, ora ai modi della lirica profana.
Un ultimo, violento contrasto si consuma a livello formale: il codice deve essere sempre all’altezza della rabbia, dell’irrequietezza nei confronti della condizione umana e della sua superbia, ma anche evocare l’indegnità e la vertigine della distanza con il divino, tracciando la visione di un approdo che lasci acceso un barlume di speranza.