Non mi stupisce il titolo di questa silloge: Sassi. Tutte le creature del mondo — animali e vegetali — sono presenti nel vasto universo della poesia di Rita Baldassarri: escludere i sassi — o le cose, o gli oggetti — era impossibile: perché anche essi sono, in fondo, creature: meno fortunate delle altre, perché senza voce; eppure, nella loro immobilità, capaci di comunicare un messaggio:
Ha il bigiume del sasso il sedile muto / in fondo al vicolo: / la persona che l’occupa è una statua./
Pochi poeti — tranne, il da me già citato Lucrezio — hanno sentito con la forza di Rita Baldassarri il profondo legame che accomuna tutte le creature, travolte da una continua, terribile eppure esaltante metamorfosi.
Non c’è presenza divina, in questo universo in cui la materia si travaglia; non c’è ragione, ma solo una forza primordiale, tellurica, che tutto muove e governa, tutto trasforma e rigenera.
Però c’è amore, che si esprime negli infiniti sotterranei legami che intercorrono tra le varie entità presenti nel creato: una grande forza materna, cui si affianca la pietas per le creature più umili, indifese e sole.
Un linguaggio originalissimo, di grande pregnanza poetica, asseconda questo arduo discorso: un linguaggio che accetta gli apporti del parlato — toscano soprattutto, ma anche ligure —, e che, il più delle volte, nasce, nuovissimo, dall’urgenza di comunicare una parola diversa, che vada direttamente al cuore delle cose. E ne derivano espressioni come queste: Pietriscono le stelle; Dove pertugia il sole; Dove il marcio s’ingora; Il giorno s’incupa e s’invioletta; Un silenzio di streghi.
Le creature soffrono: il loro dolore è nel male che le minaccia, nella solitudine che le accora, in un bisogno di libertà mai abbastanza appagato:
Gli uccelli nuovi, / del colore del secco / che non sanno volare;
I grandi fiori / con i piedi stretti / nella morsa dei vasi da giardino;
Il pianto di un cane da un chiuso. /
Ci sono momenti in cui il dolore di ognuno va oltre il limite del proprio individuale tormento, attinge un senso di rovina universale, avverte l’imminenza della catastrofe cosmica:
Vieni giù, cielo, / catafasciati sulla terra / (...) Distruggici nella tua distruzione / e sia silenzio / inebetito enorme silenzio / ad imbracare il pianto. /
Ma ci sono anche occasioni in cui, nel travagliato fluire delle cose, si coglie un fine ultimo, che è la conquista di una libertà, anche se pagata col naufragio:
L’enorme fluire delle cose / a naufragare verso la libertà. /
Talvolta la forza vitale prorompe, in antitesi alla distruzione: è lei che sveglia la terra a primavera:
Dove comincia ad affacciarsi e ride / la prima ortica con le ali verdi / che figlierà, fra poco. /
È lei che avvicina le cose, in un abbraccio fraterno:
E la giornata è d’erba, / le case sono fresche: camminano sui prati / negli intonaci chiari (...) È una mattina d’estensione, questa: / di avvicinarsi foglie, / di appoggiarsi di rami sulla spalla dei muri, / d’intendersi di case in sorellanza / e le figure umane, balenanti nei vuoti, / vibrano voli di farfalle chiari. /
Si noti come secondarie, in controluce, appaiono le figure umane, marionette minori nell’immenso teatro del mondo.
Questa grande forza vitale è infine presente nel mare, l’elemento liquido, primordiale. Perciò i sassi, le più umili creature, da esso partono, ad esso ritornano:
Mare che porta il sasso sulla riva / e lo liscia e l’attonda / (...) E si riprende il sasso ormai sotto la sabbia, / gli ridà vita nel suo fondo, in luce, / l’acqua che pur lontana gli fu madre, da sempre. /
L’ultimo abbraccio, dunque, è materno; e scopriamo che il tutto, forse, è circolare, che la fine coincide col principio.
L’uomo non ha un ruolo egemone, nell’universo: l’unico suo elemento di grandezza è, forse, solo la parola, un mezzo per esprimere lo sbigottito stupore davanti all’ignoto.