Nella maggior parte dei casi, la nostra poesia dialettale è di gusto facile, e il poeta è come il pittore che, affidandosi allo schizzo — o al disegno — pervenga tutt’al più al bozzetto. A sua volta il poeta, quando giunge all’interiezione, crede di aver raggiunto a un tempo anche la poesia.
La quale, come si sa da tutti, è un fatto di memoria: e lui, il poeta (per così dire) possiede di quel che dice la semplice nozione; nemmeno il ricordo, che è un fatto mentale, mentre la memoria è dello spirito. Così avviene che la cosiddetta poesia registri il tipo a tutti noto e la proverbialità corrente; davanti a cui la bonomia scanzonata, propriamente nostrana, resta lusingata come se si vedesse in una sorta di specchio. Occorre far nomi dei lusingatori?
Meglio è trarre in discorso l’opposto caso. Anche Modesto della Porta è partito dal pedano dell’al-bero — o, per intendersi, dal bozzettismo, tuttavia con la forza di salire via via fino alla cima e all’aria entro cui hanno respirato poeti come Alfredo Luciani. Oggi, lassù è arrivato Marino Solfanelli, ch’io sappia con un solo balzo e le quattro poesie, ciascuna una “composizione”, de Lu ciòcchele: soprattutto, con Saluteme a ssorete — cadenzato traverso a un grande spazio d’anima.
Donatello D’Orazio
Luglio 1972
Un giudizio
di Gino Orsini
Marino Solfanelli è un poeta scintillante, vivace o anche, com'egli stesso ama definirsi, cabarettistico.
Di lui la critica ha detto tante cose ma non ha mai potuto privarlo del merito di presentarci una poesia fresca e ricca di umanità, in cui i motivi di ispirazione — che sono motivi universali — trovano una prepotente capacità di imporsi all'attenzione di un pubblico elevato e moderno.
Gino Orsini
Postfazione
di Gino Di Tizio
Chi è Marino Solfanelli? Forse a lui piacerebbe sentirsi dire, inguaribile romantico, che è uno di quei personaggi che sanno buttare il cuore oltre l’ostacolo... Certamente ne è capace, ma la sua qualità davvero straordinaria mi sembra un’altra: aver conservato certezza negli ideali, fedeltà nelle scelte fatte quando giovanissimo sulla bilancia, in quei tempi difficili, non aveva esitato a mettere persino la propria vita per seguire il suo credo.
Lo conosco da tanti anni. Fu lui a chiamarmi, perché scrivessi cronaca sportiva sul giornale “Il Tempo”. Fu ancora lui ad invitarmi ad allargare i miei interessi e ad aprirmi le strade del mestiere di raccontare agli altri fatti e storie che accadono.
Un maestro, e per me lo fu, certamente, soprattutto di vita.
Era fin da allora personaggio capace di grandi slanci, sempre coerente e sincero, con gli altri e soprattutto con se stesso. Un poeta che, come il grande uccello cantato da Boudelaire, in cielo è bellissimo, ma a terra è goffo e impacciato, Lo impediscono le ali da gigante...
Sono passati tanti anni ma non riesco a scorgere in Marino Solfanelli segni di vecchiaia, di stanchezza perché il suo entusiasmo non ha avuto mai cali di tensione e i suoi interessi sono tantissimi. Ha sempre fuori dalla soglia un cavallo bianco che l'attende, e nell'armadio l'armatura... No, non può invecchiare un uomo come Marino Solfanelli!
Il mestiere che ho scelto è quello di rendere testimonianza: è il primo e più importante compito di un giornalista, il suo vero ruolo: l'ho imparato proprio da Marino Solfanelli. Ed allora rendo testimonianza della vicenda di quest'uomo che non ha mai avuto percorsi facili da compiere, spesso avversato, in tante occasioni incompreso, a volte persino perseguitato.
È di quelli che hanno scritto la parola Patria sempre in maiuscolo, e questo, ad un punto della storia di questo balordo Paese, era stato persino considerato una colpa. Non ha mai mostrato la viltà di accettare, nemmeno per quieto vivere, situazioni che non sentiva giuste. No, il suo cammino non è stato facile. Ma ha avuto la forza della goccia che scava la pietra ed oggi molti hanno capito il valore dell'uomo.
Non credo lo soddisfi, come prima non l'avvilivano le incomprensioni del prossimo. È di quelli che cercano in se stessi applausi e fischi.
So comunque che in questa città, che gli ha riservato a lungo indifferenza e incomprensione, sta lasciando orme che non si potranno cancellare.
Credo doveroso di questo rendergli merito. Per mia scelta sono testimone: raccontare così Marino Solfanelli è solo rispetto per il mio ruolo.
Dalla città di Chieti, la sua città, Marino Solfanelli ha avuto certamente molto meno di quel che ha dato. Come giornalista, prima, quando capo della redazione locale del quotidiano romano “Il Tempo” cambiò radicalmente il modo stesso di proporre il giornalismo che c'era da queste parti.
“Prima la notizia, poi i commenti, e solo se necessari” era il suo credo, che andava a recitare in ambienti abituati a ben altro: erano infatti di moda insipide brodaglie, somministrate senza ritegno ai rassegnati lettori.
Poi come editore, capace di dare una impronta originale e validissima fin dall'inizio al suo discorso, man mano ampliato e portato a livelli nazionali e internazionali.
Nei primi libri stampati Marino Solfanelli faceva scrivere un motto: “Sfioro in fango, e non m'infango”, era la sua maniera per gridare la sua protesta. Per quel mondo davvero pieno di fango che non aveva mai accettato ed insieme per indicare la sua diversità. In tanti anni la validità di quel grido è restata, ma forse Marino ormai è davvero lontano da quel fango. Si è creato ali totalmente forti che riescono a farlo volare molto più in alto...