Corrado Muti

L'eco dei miei passi

Presentazione di Marco Tabellione

Tabula fati, Chieti, Luglio 2007

 

Presentazione di Marco Tabellione

     Un’opposizione, un dualismo tormentato, l’altalena fra un basso e un alto domina la poesia di Corrado Muti, e in special modo questa raccolta intitolata L’eco dei miei passi. Si tratta quasi della rivitalizzazione in chiave moderna del dualismo petrarchesco tra la terra e il cielo, l’inferno e la salvezza. Non per niente il senso di colpa che domina la poesia di Petrarca viene rivissuto da Muti come coscienza di vivere tra due spazi e tempi in lotta fra di loro: il sogno e la realtà. Se Petrarca era penitente in sé e con sé per il peccato di un amore non solo spirituale, Muti sente in sé una colpa diversa: quella del poeta che fugge il mondo per seguire le strade del sogno e del sublime.
     Questa endiadi tra l’onirico purificatore e il reale contaminatore, assume naturalmente connotazioni differenti a seconda del contesto in cui si situa, e dei significati contingenti che il poeta attribuisce alla sua poesia. Una delle forme più suggestive di questo aspetto semantico ricorrente, riguarda l’antitesi sole-luna della poesia “Nel deserto” dove la luna, simbolo di freschezza e algida bellezza, regna sopra il deserto, simbolicamente luogo del sole opposto in questo caso alla notte lunare. Oppure riguarda l’alternativa volo-stasi, reiterata continuamente, quasi fosse un refrain, un leit motiv della poesia di Muti. Ma il senso più spesso rinvenibile dell’antitesi rimanda al ruolo sociale ed esistenziale del poeta nell’epoca contemporanea, la sua collocazione e la sua funzionalità.
     «Ho sceso le scale degli inferi per cercarti / ed ho scagliato biglie colorate / contro muri di lamento / ed ho trovato solo chi rideva di me.» In questa poesia d’amore l’endiadi citata assume i colori del tragico, anche per il riferimento alla discesa agli inferi, che è un topos della poesia di tutti i tempi, dalla mitologia classica a Dante, da Goethe alla maledizione di Baudelaire. Ma oltre a ciò, oltre a questo surplus tragico, emergono anche i colori del grottesco, perché l’inferno è caratterizzato dalle risa di coloro che non comprendono il sogno e il sublime, e nei confronti dei quali il poeta si pone in netto contrasto.
     L’inferno tuttavia, cioè il basso, l’opposto del sublime, diviene anche un luogo in cui accasarsi, in cui trovare sorprendentemente una nuova patria, un posto in cui riconoscersi, persino un rifugio, come recita la parte finale di “Pozzo di malinconia”: «Chi non conosce la pena di un addio / non comprende la profondità del pozzo detto / malinconia, / una maledizione ma anche un rifugio / dal quale non si vorrebbe fuggire.» Siamo di fronte ad una dimensione psicologica classica, quella dell’uomo che si crogiola nella sublimazione della propria sconfitta, in una autocommiserazione che assume pose letterarie, nel pianto di e per se stesso.
     La malinconia gioca questi scherzi, ma diventa per il poeta anche uno schermo contro gli attacchi del mondo, e ritorna qui di nuovo l’immagine del Petrarca, nel sonetto celebre come “Solitudine”, dove scrive «altro schermo non trovo dal manifesto accorger de le genti»; un sonetto tutto imperniato sul rifiuto del mondo e degli altri: «E gli occhi porto per fuggire intenti ove vestigia uman l’arena stampi», nel desiderio appunto di fuggire addirittura persino le orme della gente, e, in generale, qualsiasi segno del mondo civilizzato.
     In effetti sembra che, anche in Muti, tutte le antitesi che ispirano questa raccolta giungano a catalizzarsi in quella fra l’io e il mondo, dialettica tra individuale e collettivo che ora si fa pretesa di essere ascoltati («Ho sempre parole da dare, ma pochi a cui donarle e le getto invano» in “Canzone senza titolo”) ora invece tradisce il senso di una vera e propria inettitudine, una in capacità a vivere la quale giunge addirittura a permeare di sé persino uno dei principali strumenti e simboli del volo e del sublime, vale a dire l’amore. «Dell’amore che vado ciarlando / io... nulla so veramente. / Ti prego madame, / non dirmi che m’ami / scriverei solo / un’altra poesia per te.» Si tratta della parte finale di “Tema d’amore - I” una poesia che tradisce una posa psicologica nuova. È come se in un momento di lucidità rispetto all’avventura onirica e sublime del sogno, il poeta chiedesse perdono agli altri per il suo desiderio di elevazione (e si impone qui il riferimento alla splendida “Elevation” di Baudelaire), chiedesse venia all’intero contesto sociale, affogato invece nel basso e nel prosaico, o meglio ancora è come se ci fosse la coscienza di un peccato insito in questo desiderio di volo, un petrarchesco senso di colpa per l’avventura del sublime. Così si comprende meglio l’accorato appello che chiude la poesia “Cartone animato”: «Ho fatto brillare fuochi dicendoli stelle... / Perdonatemi voi che ci avete creduto / perdonate il pazzo nascosto dentro il suo cartone.»
     La poesia di Muti è dunque attraversata da correnti contraddittorie, che comunque la rendono ancora più viva e vera. In “Brandelli di me” il sogno torna ad essere uno strumento di distinzione rispetto alla società materialista, e comunque un patrimonio che il poeta vorrebbe condividere con il resto dell’umanità, come se dal sogno e dal sublime potesse venire la salvezza per l’uomo minacciato dall’autodistruzione. Tuttavia il tentativo di autoriscatto del poeta, affidato al preteso aiuto offerto alla società dal sogno poetico, si infrange contro gli scogli di una umanità sempre più affondata nell’utilitarismo mercantile, nella dinamica della vendita e dell’acquisto che oggi domina sovrana ogni tipo di relazione umana. Emerge a questo punto l’immagine del poeta e della sua anima sacrificata, “fatta a brandelli” per avere osato proporre il sogno come rimedio ai mali della contemporaneità.
     Nonostante la sconfitta e il volo abortito del sublime poetico, la speranza per una vita autentica e degna di essere vissuta rimane inalterata, ed è una speranza di vita concreta, lontana dalle illusioni leopardiane, perché si impone come speranza di incidere sulla effettività sociale, quasi a volersi riprendere dal sogno, riprendersi dallo sbandamento allucinatorio, a lasciarsi indietro il sublime per un viaggio vero nella realtà storica e sociale, vero come il bacio che l’autore chiede all’amata in “Tema d’amore - II”. Qui il bacio, esperienza sensitiva e sensuale reale, dovrebbe aiutarlo a svegliarsi dal sogno e dal sublime, considerati per un attimo come condanna e condizione disperata. «Ti sognerò domani mia regina / [...] ma tu... dammi un bacio / ... mi devo svegliare.»
     La speranza ritorna preponderante anche nell’immagine del Natale dell’anima, espressa in “Il tuo natale” legata al desiderio di una rinascita spirituale. In questo caso tuttavia l’antitesi torna a mostrarsi secondo una connotazione tradizionale, giacché è il sogno poetico a rappresentare il bene contro gli attacchi e la violenza della contemporaneità. Il componimento che tuttavia meglio rappresenta questa dialettica fra l’autore e il suo tempo è “Mostri nella notte”. Qui la poesia, in un momento di svelamento definitivo dell’enigma e del significato del simbolo rappresentato dall’alto e dal profondo, diventa essa stessa un’arma contro i mostri della notte, i mostri di una società sempre più buia e nera, perché sempre meno elevata e poetica.
     In Petrarca il dissidio tra il cielo e la terra, lo spirituale e il sensuale, trovava la sua soluzione nella perfezione e nell’ordine formali, allo stesso modo il livello ritmico e fonico della poesia di Muti tende ad essere permeato da una identica dialettica, quasi da un’incertezza. Dal punto di vista formale, infatti, il suo verso libero si fa ora lungo ora breve, a seconda dell’intensità emotiva che l’autore vuole esprimere, con una cadenza ritmica sottolineata quasi sempre dalla divisione in strofe, segnate non poche volte da anafore ed iterazioni che incidono a loro volta sulla ripetitività ritmica e sonora delle poesie. Si riscontra in poche parole un’alternanza di ritmi abbastanza inusitata in uno stesso poeta, quasi un segno di distinzione di Muti, che evidentemente è riuscito ad adeguare la forma dei suoi versi alla tipologia del contenuto.
     L’approdo finale di questa ambivalenza semantica e formale della poesia di Corrado Muti è nelle liriche sull’amore, concentrate nella parte finale della raccolta, dove l’amore rappresenta come si è detto una possibilità di riscatto, una possibilità di concretezza rispetto al volo e al sogno. L’amore si trasforma spesso infatti in uno strumento di contatto del mondo e dello spazio prosastico, poiché rappresenta l’unico significato mondano capace di essere riferito al sogno, anzi addirittura di nutrirlo e rilanciarlo. Se non fosse che il poeta continua a vivere il proprio desiderio onirico come colpa, considerando mediante la costruzione di un elegante ossimoro, l’amore come un male che fa bene, e fa bene proprio perché strappa dal sogno, luogo di dannazione perché opposto all’esistenza concreta. «Ho bisogno di questo male che fa bene» si legge infatti in “Ho bisogno”.
     Si ha in definitiva nella poesia di Corrado Muti, la ripresa di un altro topos letterario tipico della poesia romanica e simbolista, l’immagine del poeta elevato spiritualmente rispetto alla gente comune, ma inetto e incapace da un punto di vista pratico. Si pensi da questo punto di vista alle ali da gigante che non permettono all’albatro, nella celebre poesia omonima di Baudelaire, di camminare. Una ripresa originale di questo topos è riscontrabile in “Maledette le mie mani” che non a caso chiude la silloge, con una frase da effetto: «Ho mani troppo brave per me / ora che / le vorrei solo tagliare.» Mentre però in Baudelaire a inibire il poeta e la sua grandezza era il mondo sociale, in Muti è egli stesso a impedirsi l’autorealizzazione. E ciò dimostra l’attualità e anche l’originalità di Muti, il suo essere in tutto e per tutto figlio del proprio tempo.

Marco Tabellione