A chi è dato presentare la poesia di Giovanni Monti si impone un compito paradossale: quello di esprimere e allo stesso tempo celare un significato. Una prefazione che si rispetti, infatti, dovrebbe riflettere sugli accadimenti concreti o emotivi che costituiscono il substrato delle liriche, sulla funzione comunicativa della lingua, mentre il poeta sembra giocare tutto proprio sulla questione della problematicità dei significati e sulla coscienza della fine della trasparenza del senso.
Il sentimento di alterità e di estraneità rispetto al mondo trascorre dal piano esistenziale a quello metafisico e si rivela come decisa e fatale negatività dell’esistenza. Tale coscienza del “male”, il sentimento della soccombenza, è tutto ciò che resta, che a suo modo consola e dà un senso perché fa sentire vivi, è la cifra del nostro stare-qui / la risultanza del nostro esser-così; non è tragedia o dramma sublime, ma piuttosto farsa, destino beffardo, una sconfitta immeritata che paralizza, il niente che ci tiene svegli. L’uomo non vorrebbe accettare la sua condizione, e tuttavia non può eluderla dato che, leopardianamente, la natura cela in sé la sua oscura ragion d’essere, insensibile agli sforzi e agli interrogativi: Qualunque cosa / possa dire al mare / so che la sprofonda / oltre il possibile riflesso / d’ogni luce.
Tramontata ogni tensione agonistica o espressiva, la mente prova a mettere in atto i soliti processi conoscitivi, ma lo fa girando a vuoto, senza ottenere nulla, perché la verità è frammentaria, parziale e non è cosa razionale. Nella raccolta abbondano infatti immagini metaforizzate inerenti all’ambito più propriamente razionale, quello logico-matematico, come assioma, disegno, geometria, problema, sciarada, enigmi, questione, cifra, cerchio, circonferenza: tutti tentativi destinati al fallimento.
Al poeta non resta che rispecchiare questa condizione di aridità e negazione aderendo alla concreta materialità delle cose e osservando le relazioni che le uniscono, nella speranza di trovare la misura della circonferenza che schiuda il mistero della vita attribuendogli senso e significato. L’interruzione dell’abituale negatività dell’esistenza, del cerchio che serra dentro, il cerchio esatto e chiuso che ci opprime è evento assurdo, non determinabile ma propiziato dal silenzio, è un’eccezione fragile, un segnale di breve durata che si dissolve senza essere compreso.
Tale prospettiva è emblematizzata nell’orizzonte marino, da cui però il poeta sembra esiliato: il mare è il luogo dell’avventura, della beatitudine panica e dello smemoramento, mentre la terra — e con essa la casa — è sede della razionalità e della consapevolezza, della rassegnazione, della rinuncia, dell’indifferenza alla vita.
L’“anomalia gnoseologica” che ci porta a credere solida realtà il nulla si identifica invece in forme oscure e cifrate tratte dalla concreta realtà naturale, testimone silenziosa di una condizione che non può offrire certezze o illusioni: E alla fine scopri / che c’è una zona morta / proibita alle illusioni. / E un qualche dio pietoso che disegna / la linea di confine / dal fragile fantasma che ci opprime.
Monti introduce delle immagini concrete e tangibili per materializzare il suo pensiero: Ti dico / non so nulla di quello che rovina / oltre quel muro spento di calcina.
Tra l’uomo e l’assoluto c’è, ineliminabile, il mondo dei fenomeni e delle apparenze, la concretezza della natura e della storia, la sola speranza di accedere al mistero, la sola, materiale espressione di quel mistero: [la morte] non ha voce. / Al massimo s’affaccia alla finestra / si cela al gelsomino della sera.
Nella sua ricerca delle ragioni ultime del vivere l’io poetante richiede con insistenza un interlocutore, una presenza che viene evocata dalla seconda persona e che attraversa l’intera raccolta. Espressione di volontà di dialogo, esausta ma quanto mai necessaria, essa coincide con una figura femminile, scissa tra esteriore dolcezza e interiore inquietudine; ora esistenza vinta e dolorante a condividere il medesimo destino del poeta, ora presenza rassicurante, o indifferente, portatrice di varie possibilità di scampo al male dell’esistenza.
L’atteggiamento di entrambi è di sospensione attonita e meditativa, senza tuttavia penetrare il segreto delle cose e della loro presenza. Neppure la memoria riesce a recare sollievo, erosa e cancellata dall’inesorabile scorrere del tempo, anzi essa è negata come strumento di conforto: abbiamo a guarimento strappato le radici.
Se muta la parola si fa pietra, mentre ci resta una fortuna: non ricordiamo niente. Dunque, anche la poesia non è che una povera testimonianza, è un segnale debole e incerto, identificato con una fioca luce; ma pur sempre un atto di consapevolezza e di coerenza, un diario di parole al vento imposto con accanimento e che pure si giustifica con l’esatta misura del peso che al poeta è dato portare.
È vero: questa poesia è oscura, e poco fa conoscere: parla di accadimenti, creature o cose poco decifrabili; il lettore perde l’impressione della trasparenza e dell’immediatezza del senso, ma ne riacquista in suggestioni magiche che emanano dalla lingua, dal ritmo, dal suono, dalla tonalità. E tale poesia, proprio attraverso la parola, ricostruisce un mondo, è addirittura un mondo.