Giuliana Falcetta

Le Terre Immobili

Presentazione di Marco Rossi

Tabula fati, Chieti 1997

 

Presentazione di Marco Rossi

     All’alba della cultura occidentale, tra le arene e le rocce di una superba città marinara, Mileto, capace di commerciare, discutere con ogni etnia, ma anche di impugnare le armi contro il grande oriente dell’Impero Persiano, Anassimandro scriveva o proferiva le parole che avrebbero dovuto definirlo nei secoli.
     Abbandonato forse alle carezze di una serena brezza, in un tramonto limpidissimo, come un naufrago lascia la bottiglia con il messaggio, Anassimandro lasciò le sue parole allo sciacquio dondolante del tempo: «... principio degli esseri è l’infinito... da dove infatti gli esseri hanno origine, lì trovano anche la loro distruzione secondo necessità: poiché essi pagano l’uno all’altro la pena e l’espiazione dell’ingiustizia secondo l’ordine del tempo.»
     “Apeiron” per dire “indefinito-infinito”, con l’ambiguità straripante di vita dei Greci, dove l’eco di antiche rivelazioni orali tramandava l’idea dei cicli cosmici e di una “necessità” e di una “libertà” ancora vergini, senza i moderni connotati di una insanabile contraddizione; al contrario, con l’amabile aroma di una gaia completezza dionisiaca, quella appunto dell’“Uno-Tutto”.
     Da quel remoto tramonto nell’aurora lontanissima dell’Europa sino ai nostri convulsi giorni, quella frase ha continuato a trascrivere i contorni dell’enigma dell’Inizio, dell’Espiazione nella separazione, del Destino individuale in relazione all’infinito.
     In quella frase di Anassimandro c’è già tutto l’Occidente, con le sue tragedie, le sue trionfali responsabilità, la sua corsa faustiana verso l’infinito...
     E quel mondo, quello dei Greci che si compirà in Roma, nell’Impero mediterraneo di Roma, non è mai definitivamente tramontato nei cuori degli occidentali.
     Se siamo ferocemente sinceri, se abbiamo il coraggio di vedere il destino dell’Europa nella storia, ci accorgiamo che non si può spiegare il medioevo cristiano e imperiale, né il Rinascimento, né la prometeica modernità, né l’Illuminismo, il Romanticismo (che si ripeteranno dialetticamente nel positivismo e nel decadentismo), e nemmeno questo meraviglioso, terribile e inquietante Novecento senza l’imponente presenza dell’“archetipo” della classicità greco-romana.
     In questo senso il fuoco di “Vesta”, come ebbe misteriosamente a scrivere Guido de Giorgio, non si è mai davvero spento. E certe immagini, certe analogie che diventano impetuose incarnazioni storiche rimangono cifre eloquenti di questa continuità.
     Scriveva nel 1936 il grande psicologo Carl Gustav Jung: «Se trent’anni fa qualcuno avesse osato predire che il nostro sviluppo psicologico tendeva ad una reviviscenza delle persecuzioni medievali degli ebrei, che l’Europa avrebbe di nuovo tremato davanti ai fasci romani e al passo cadenzato delle legioni, che le persone ancora una volta avrebbero fatto il saluto romano come duemila anni fa, e che un’arcaica svastica, invece della croce cristiana, avrebbe attratto milioni di guerrieri pronti a morire, ebbene sarebbe stato accolto come un mistico folle.» (Gli Archetipi dell’Inconscio Collettivo, Bollati-Boringhieri, p. 77)
     E certamente le tracce acutamente sottolineate da Jung non si limitavano al quadro politico; tutta la cultura spiritualista contemporanea, il sincretismo, il panteismo, e ancora le tradizioni orientali riscoperte, l’induismo, il buddhismo, il taoismo, ci parlano di una ricerca profonda dell’uomo occidentale nella direzione delle sue arcaiche origini.
     Insomma, la modernità, con tutti i suoi drammi e le sue contraddizioni, non sembra voler rinunziare a nessuno dei temi classici: al contrario, il dramma ecologico nel quale sembra lanciata non pare spiegabile che all’interno della sfera del “Tragico”.
     Appunto del Fato che incombe, sintesi alchemica di Libertà e Necessità... Destino temporale lanciato oltre le barriere del tempo.

     In questo mondo classico, in questa dinamica re-incarnazione della Classicità si inserisce pienamente Giuliana Falcetta. La Falcetta è una donna che esistenzialmente, nella vocazione profonda, nel suo destino-karma rivive e reinterpreta la complessità dell’universo spirituale mediterraneo.
     In lei il retaggio egizio-islamico, della terra d’origine dell’alchimia e dei rossi tramonti d’Alessandria, si unisce alla bionda giovinezza alamanna e gota dell’antica padania. Latitudini simboliche di terre e idiomi diventano cifre ineffabili del cuore, algebra che chiede di essere redenta e compresa in termini di vita e di poesia.
     Da qui la vocazione per il teatro, per il rito della parola e del suono e dell’immagine quale alle origini si realizzò nel sacro della tragedia greca: nella Falcetta la modernità e l’arcaicità dell’antica ellade si uniscono in uno stesso dramma, in un medesimo fortissimo sentimento.
     Da qui la “naturalità” con la poesia; la quale nella Falcetta è ben lungi dalla mera registrazione delle amenità private, lontanissima da ogni sentimentalismo, invece per il sentimento alto e severo della vita-visione estatica, del dramma dionisiaco del grande sì alla vita per andare oltre la vita, appunto nella direzione di quelle “Terre Immobili” che la Trascendenza, la Divinità da sempre ha indicato come fine ultimo dell’uomo.
     I drammi descritti dalla Falcetta proprio per questo non possono non essere arcaici, come Dio e l’acqua sorgiva delle nevi, e allo stesso tempo non possono non essere struggentemente moderni.
     Moderni come la sete incommensurabile di Dio e di Valori autentici che sta alla radice di tutti i più insolubili e drammatici problemi di questa nostra ricchissima e triste “civiltà” tecnologicamente avanzata. Davvero i versi della Falcetta tendono a riattualizzare la dignità del destino umano, sospeso tra gli Dèi e i Dèmoni, tra la tentazione faustiana del potere materiale e la luce adamantina della grande Liberazione nella Trascendenza.
     È un rango altissimo e pericolosissimo quello dell’uomo e l’unico vero umanesimo è quello che ci parla questo solenne e laconico linguaggio: niente sentimentalismo, niente insulse illusioni, nessun regalo e niente di sicuramente garantito alle nostre secolari debolezze, piuttosto una dura quotidiana lotta, un aspro salire e capire, un lacerante e luminoso incedere verso i candidi silenzi delle Vette.
     In questa strada, e solo in questa, si allarga davvero il cuore, si incontrano contiguità di sentire e di sentimenti veri, “corrispondenze di amorosi sensi” che sfidano lo spazio e il tempo in una rete invisibile e solidissima che accomuna i cuori, le generazioni, i sogni, in una Carità che è AmoR-RomA, come già i Fedeli d’AmoR indicavano, e come noi, ancora oggi, con tutte le nostre manchevolezze e contraddizioni, continuiamo ad indicare.

Marco Rossi