Il problema degli extracomunitari e dei profughi della ex Jugoslavia, coi suoi risvolti umani angoscianti e pietosi, è senz’altro uno dei nodi morali cruciali della nostra società: giorno dopo giorno le principali città europee vengono in certo qual senso assediate da torme di disperati, bisognosi di tutto, ai quali la carità internazionale tenta in ogni modo di dare soccorso. Vengono così allestiti in tutta fretta campi profughi, catene di solidarietà, e i governi si adoperano per alleviare con ogni mezzo almeno le loro sofferenze fisiche.
Esiste però anche un altro risvolto, un’altra faccia di questo terribile problema, risvolto che, per forza di cose, è spesso destinato a rimanere sconosciuto: quello della indicibile sofferenza morale di questi diseredati della vita, tradotto generalmente dalla stampa sotto le definizioni di “dramma dei profughi”, di “fuga dall’inferno”, o offerto al pubblico televisivo attraverso immagini che mostrano esodi massicci e scene di disperazione di donne, bambini e anziani.
Ma quale sia realmente la sofferenza morale dei profughi e degli extracomunitari, cosa significhi per loro essere sradicati dalla loro terra e dalla loro patria, quale sia la vera condizione psichica di questa gente che, tranne la vita, ha perduto tutto, non può, per forza di cose, esserci spiegato dai mass media, che per la loro stessa essenza sono inadeguati a scavare nella psiche del singolo, nei suoi affetti, nelle sue miserie.
Gli echi sanguinosi delle guerre che hanno devastato i territori della ex Jugoslavia si sono appena spenti nelle nostre coscienze, inorridite dagli eccidi e dai crimini che ogni conflitto trascina con sé, ma il dramma dei profughi è appena iniziato: si tratta di gente cui la crudeltà umana ha tolto qualcosa che non potrà mai più essere restituito, e che la carità materiale può soltanto pallidamente sostituire.
Ai bambini che hanno perso i genitori nulla e nessuno potrà mai donare quell’infanzia felice cui avevano diritto come ogni essere umano, alle donne che hanno perso i mariti niente e nessuno potrà mai restituire l’uomo amato, ma soprattutto niente e nessuno potrà mai far sì che dagli occhi dei profughi si cancellino le immagini degli orrori che una guerra, assurda come tutte le guerre di questo mondo, ha impresso a colori di sangue.
Rinunciando alle sue attente indagini sulle singole devianze di origine traumatica della psiche umana, stavolta Silvana Cellucci ha costruito una storia dove la sua consueta e sottile analisi dei traumi mentali e delle loro conseguenze sulla vita e sulle scelte degli individui si slarga sino ad abbracciare il dramma e il trauma di un intero popolo, quale quello bosniaco, che ha preceduto di circa dieci anni la tragedia del Kossovo, ma i cui effetti sulle vittime si avvertono ancor oggi in modo drammatico per chi voglia vederli.
Anche questo romanzo, come tutti i precedenti lavori della scrittrice abruzzese, sembra annunciarsi in tono minore al lettore, guidandolo attraverso le pieghe di una vicenda che sulle prime può sembrare il classico dramma di un matrimonio fallito, di una vita spesa male, della sensazione di qualcosa che è stato irrimediabilmente rubato. Ma la vicenda stavolta devia quasi immediatamente, presentando personaggi che, attraverso gli occhi del protagonista, assumono una pregnanza umana profondamente diversa: ecco così scorrere dinanzi al lettore i retroscena del dramma dei profughi bosniaci, la loro esistenza quotidiana ora segnata da esperienze terrificanti, ora influenzata da odi personali che la guerra ha soltanto esacerbato. Se per alcuni la vita nella nostra Italia, paese senza dubbio tra i più sensibili alle sofferenze umane, ha significato il calore di una famiglia che li ha accolti e inseriti a pieno diritto nel sociale, per altri invece ha dato origine ad un lento e inesorabile scivolamento verso la delinquenza e il degrado, fisico e morale, più profondo e irrimediabile.
Immune come sempre da ogni semplicistica valutazione di stampo moralistico, pur nell’umanissimo afflato religioso che anima tutte le sue opere, Silvana Cellucci descrive la vita quotidiana di alcuni giovani bosniaci, legati tra loro da oscure vicende, che cercano disperatamente di ritrovare da un lato il loro passato, la loro memoria atavica, e dall’altro sperano giorno dopo giorno di potersi ricostruire una vita che valga davvero la pena di essere vissuta.
Ai dialoghi, immediati e sciolti com’è nello stile della scrittrice, sono affidate le ansie, le aspirazioni, le passioni dei giovani bosniaci, sui quali campeggia, per la sua grande umanità e per la sua invincibile forza d’animo, spinta fin quasi all’olocausto di se stessa, la figura scultorea di Delia Varzi, una pianista che proprio nella musica ha trovato il coraggio per superare le sue contraddizioni, le sue paure, le sue disgrazie, riallacciando un legame giovanile del quale la vita l’aveva originariamente privata, e che solo la sua estrema dedizione, la sua voglia di ricominciare riuscirà a recuperare.
Corale, dai toni quasi epici, gremito di riflessioni sull’umano penetranti e sottili, e tuttavia, come tutte le altre prove narrative della Cellucci, avvincente e di gradevolissima lettura, il romanzo offre, ed è questo a nostro avviso il suo merito principale, un’immagine ravvicinata del problema dei profughi, considerandoli, a differenza della stampa, sempre e soltanto come individui e mai come massa, il che permette all’autrice di mostrare al lettore, lungo il dipanarsi dell’intricata vicenda, come la guerra non uccida soltanto gli uomini ma anche, ed è questo il suo vero crimine, la loro forza di vivere, la loro voglia di gioire, di amare, la loro fiducia nel prossimo, lasciandoli magari in vita, ma vuoti e morti dentro, aridi e disseccati come quegli ossi di seppia, di montaliana memoria, che le onde marine, nel loro incessante fluire, abbandonano ogni giorno al loro destino sulla spiaggia.