Carmina non dant panem: in questo antico adagio latino, masticato e rimasticato sino alla nausea da generazioni di genitori trepidanti per l’avvenire dei figli, si compendia l’abissale divario tra mestieri produttivi, che assicurano cioè la sopravvivenza tramite un più o meno cospicuo guadagno mensile, a prezzo però di continui compromessi e di un’alienante ripetitività di fondo, e i mestieri artistici che, affascinanti per la vita libera e spensierata che paiono offrire, celano però, agli occhi dei cosiddetti benpensanti, il grave rischio di un’esistenza più o meno grama e di una cronica penuria di mezzi e di denaro, a meno che non intervenga una genialità folgorante o un imprevedibile colpo di fortuna che collochi in poco più di un istante l’artista, pittore, narratore o musicista che sia, alle vette del successo e della fama assicurandogli al tempo stesso fama e agiatezza.
Tanti giovani ogni giorno vengono posti dinanzi a questo atroce dilemma da genitori ansiosi e preoccupati del loro avvenire e la stragrande maggioranza di loro, messi di fronte all’eventualità, non molto remota del resto, di una vita di stenti, finiscono per scegliere una carriera magari più oscura, certamente meno consona alle loro aspirazioni, ma quantomeno dignitosamente redditizia, trascorrendo però, spesso e volentieri, il resto della loro vita a rimproverarsi di non aver avuto il coraggio di puntare tutto sulla carta incerta e capricciosa dell’arte.
È questo il caso del protagonista del romanzo di Silvana Cellucci, Una nuova vita: il giovane Paolo, brillante e promettente pianista già ben avviato agli studi di composizione, dopo un breve periodo di esperienza bohèmienne, che gli costa però un aspro dissidio con la sua famiglia che lo vorrebbe avviato alla carriera manageriale e diplomatica, rientra pian piano, dopo la morte del padre, nei ranghi dell’esistenza borghese, a prezzo però di un sempre più profondo disagio esistenziale ed affettivo che, di compromesso in compromesso, lo condurrà sino ad una sorta di tragico epilogo che paradossalmente però segnerà l’inizio appunto della sua “nuova vita”.
Non a caso la Cellucci gioca gran parte del suo impianto narrativo sul tortuoso percorso esistenziale del protagonista, costellandolo di figure femminili simbolicamente antitetiche: da un lato la bellissima e affascinante Caterina, sensibile alle lusinghe dell’arte ma segnata da un matrimonio infelice che, condannandola alla solitudine psichica, la spinge tra le braccia di Paolo del quale condividerà moralmente il destino sino alle estreme conseguenze; dall’altro Isabella, giovane benestante ordinata e ingenua, vegliata e coccolata dai genitori altoborghesi, ma anche lei destinata a soccombere dinanzi all’insoddisfazione sempre maggiore di Paolo.
Quello che potrebbe sembrare ad una prima lettura un romanzo di tipo tradizionale, imperniato sulla classica triangolazione di una vicenda amorosa, si svela invece come un continuo interrogarsi sul disagio giovanile e soprattutto sulle sue vere cause, che l’autrice ritiene non a torto annidantesi nella confusa situazione politica e ideologica italiana. Ed è proprio l’ambigua situazione italiana, secondo la Cellucci, con le sue tortuosità e il suo penalizzare quasi sempre i giovani più dotati, il contrassegno dell’attuale disagio giovanile: disagio per certi versi senza tempo, tipico di un’età e della ineliminabile conflittualità alla radice dei rapporti genitori-figli, ma che può venire aggravato e reso più cocente da una particolare situazione storica, economica, politica.
Da qui un romanzo tutto imperniato sulla sofferenza del protagonista, sofferenza morale e fisica ad un tempo, quasi Paolo fosse il capro espiatorio di una morale di vita che premia l’arrivismo e l’egoismo, e punisce le aspirazioni disinteressate.
Il romanzo di una sofferenza condotta sino alle sue estreme conseguenze, congruentemente scritto in una prosa scarna, asciutta, incisiva nella sua spoglia laconicità, che poco o nulla indulge alle descrizioni e alle aggettivazioni tanto care alla prosa italiana, privilegiando invece, in una sorta di ininterrotto monologo che sovrasta e domina l’evolversi della vicenda, l’itinerario mentale del protagonista, tutto interiorizzato ed involuto, dinanzi al quale anche le singole vicende narrate sembrano perdere smalto e mordente quando non è Paolo stesso a rinarrarle attraverso i suoi pensieri, i suoi dubbi e i suoi rimorsi.
Un romanzo “a tesi”, forse, raro in quest’epoca dominata dal minimalismo e dal disimpegnato post-moderno, dove tutti i personaggi paiono in certo senso corrispondere a modelli stereotipi, a simboli di una società sempre più tecnologizzata e disumanizzata, dedita all’adorazione del dio denaro e del potere, e dove i sentimenti stessi debbono obbedire e piegarsi all’utile, al redditizio, a ciò che può aiutare “a farsi strada nella vita”.