Esiste in ciascuno di noi un tempo soggettivo che a tratti, durante la nostra esistenza, sembra prendere prepotentemente il sopravvento sul tempo oggettivo, il tempo magari reale della vita, scandito da orologi, calendari, anniversari, feste comandate. Ma la differenza tra i due è sostanziale: il tempo di tutti i giorni ci accompagna, lo usiamo per organizzare i nostri impegni, in una parola lo viviamo senza accorgercene; il tempo soggettivo, quel qualcosa di impercettibile che nel nostro animo scandisce e custodisce i ricordi, le sensazioni, il significato unico e assoluto che noi abbiamo dato ad un evento, rimane nascosto in noi sino a che esplode con abbagliante vivezza, riportandoci ad un istante, ad una sensazione, in una parola a quel tempo perduto, di proustiana memoria che solo l’arte può farci ritrovare e, magari, comunicare ad altri.
È questo sapore di tempo perduto che emana da Agnese, delicato romanzo della memoria, dove il mondo, visto dagli occhi di un bambino, si concentra volta a volta in una veste femminile, in un castello dirupato, in un momento di tristezza, sino all’ultima immagine, dolorosa e incompiuta, vera e propria cesura tra il mondo ingenuo dei giochi infantili e la tragica e sempre troppo repentina epifania della coscienza adulta.
I brandelli di ricordi si dilatano, acquistando forza e pregnanza simbolica: ed ecco la gita al mare, al mare di un tempo, libera spiaggia punteggiata di ombrelloni variopinti e esclusivo privilegio domenicale, popolata di donne prosperose, che all’ora di pranzo si tramuta in una grande tavolata ricolma di piatti che già da soli un tempo sapevano “di festa”. E poi il rito della radiolina e del calcio, della partita a carte con un occhio ai bambini… Forme ormai dimenticate, ma che sono parte di un immaginario collettivo, di un passato comune, dentro il quale si annida il passato, “l’infanzia” di ciascuno di noi.
Il sottile indulgere di Buzi alla descrizione, ai particolari, alla ricerca del termine evocativo e multiforme, quasi pittorico, dà forza ai tanti squarci narrativi che costellano Agnese: riti paesani, quale quello della passeggiata estiva, sdegnata dagli uomini e momento di svago e di ciarla benevolmente maligna per le donne. Sembra quasi di sentire, di vedere l’aria immota del primo pomeriggio estivo, calda, densa, col suo tremolio luccicante, traversata da odori che il nostro tempo caotico sembra aver dimenticato; e poi il sottile trapasso al pomeriggio, il risvegliarsi, il tornare a irrompere della vita.
E non mancano gli spunti comici, sia per l’uso sapiente e raffinato di un pastiche linguistico dove il dialetto aggiunge una nota di colore ai dialoghi, sia per il tratteggio magistrale di alcune figure come quella del nonno sulla sedia a rotelle, della Regina delle bizzocche, dei bambini che giocano nel cortile col protagonista, i cui nomignoli bastano da soli a farli sbalzare dalla carta come un bassorilievo.
Ma tutto sembra pervaso da una nota dolorosa, come un’ombra scura che, remota e lontana nelle prime pagine, avanza pian piano lungo tutto il corso del romanzo, come un dubbio, un sospetto che impercettibilmente si fa certezza. Agnese sente, quasi con quella coscienza biologica descritta dal grande Thomas Mann, che qualcosa la minaccia; il libro si apre con un rituale magico campagnolo, legato alle immagini che debbono formarsi in una bottiglia colma d’acqua nella quale sia stato versato dell’albume d’uovo. Agnese vi vede una nave, ma la vecchia che l’ha aiutata a compiere il rito si rifiuta di interpretare il simbolo; lo stesso simbolo ritorna molti capitoli dopo, legato ad un letto avito. La nave rappresenta forse un viaggio, o il viaggio? Quel viaggio che tutti prima o poi dobbiamo compiere? O un viaggio verso una speranza di salvezza?
Anche Buzi tace, ma il dubbio rimane al lettore accorto, e cresce, rendendo sempre più palpabile quel suono doloroso che in sordina accompagna la narrazione sin dalle prime battute. Sempre, in ogni pagina, i pettegolezzi delle donne, i giochi dei bambini, le gite domenicali, sembrano nascondere una nota stonata, avvertibile a tratti nell’intensità quasi dolorosa delle descrizioni. Sino ad un momento cruciale, dove Agnese si osserva inquieta, speranzosa e impaurita allo specchio in una luce abbagliante…
E poi il finale, aperto ma crudele, dove l’ultima immagine, di una donna che va sola, perché sola vuole essere, a sciogliere il suo dubbio atroce, segna l’estremo istante beato della fanciullezza del protagonista, di quell’epoca che tutti noi abbiamo vissuto e che abbiamo compreso di aver vissuto solo anni luce dopo, quando all’improvviso prendiamo coscienza che mai, mai potremo ritrovare quella felicità infantile, negata alle ansie e alle angosce, che si è dileguata senza preavviso un giorno come tanti altri, senza darci nemmeno il tempo di congedarci da lei.